L’occhio resta immobile e sospende nel tempo la visione di un dettaglio. Le cose sanno emanare spiritualità restando se stesse, senza ripiegare su simbologie dove la mediazione con l’umano determina sembianze specifiche. Un oggetto, un luogo, l’accenno di una persona che aspirano alla propria nudità. La fotografia come isolamento di dettagli e accostamento intuitivo tra le parti. Potremmo sintetizzare così l’idea di Marco Baroncelli (Prato, 1967) per questa personale presso la galleria LAC. La tecnica dell’accostamento è l’altro spunto fondamentale. Esso genera infinite varianti, dove le immagini si evidenziano l’una con l’altra e si mettono in relazione senza la necessità di un filo logico. Questo concetto, limato nell’arco temporale dell’opera di Baroncelli, rispecchia la doppia volontà di ricerca formale e rimando intuitivo al profondo. Non una netta separazione tra formalismo e contenutismo, ma un gioco di rimandi, un’alternanza di posizioni.
Il titolo della mostra, Lapus linguae, e del video, Camere con svista, alludono, invece, alla possibilità di un’erronea interpretazione, che in quanto tale non devia dall’opera, ma espande la possibilità di approfondimenti interiori. Immagini in movimento che si susseguono le une alle altre, dittici e trittici che gettano uno sguardo attento e pudico su elementi minimi, tanto da avvicinarsi all’astrazione, a volte. Immagini finemente congegnate che si rapportano al bianco delle pareti sospendendo lo sguardo dello spettatore, che ne ricava suggestioni personali e silenzi riflessivi. La cura dell’evento favorisce un approccio ben delineato che nulla concede al superfluo e al dispersivo. Lo stesso approccio valga per il catalogo in mostra, dove viene offerta un’ampia scelta di immagini ben allineate.
L’anello debole purtroppo è proprio il testo di Manuela Annibali (curatrice della mostra), dove a letture mirate alterna citazionismi poco calzanti (vedi “l’atlante della memoria” di Aby Warburg e il concetto di ready-made). L’aspetto critico viene infine risollevato dal testo di Alessio Verzenassi, che con lucida essenzialità fa luce sui meccanismi dell’immagine di Baroncelli. Se da un lato l’artista chiama in causa il congegno delle immagini affiancate (di per sé trito e ritrito, tanto da rendere inefficiente chiamare in causa certi referenti piuttosto che altri), lo fa in modo così personale da rendere valido il lavoro, che di conseguenza ci riporta anche ad altri ambiti di riflessione.
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