Qual è il senso di una mostra? Quale il motivo per cui si decide di proporla? Domande semplici, quasi scontate, che tuttavia a volte è necessario porsi. OutArt 2006 non offre la risposta. E riflettendo a lungo, anche nei giorni successivi al vernissage, risulta difficile trovarne il senso.
I fatti: una serie di artisti sono stati invitati a partecipare ad una mostra nella Villa dei Quintili. Sono tanti e molto diversi tra loro “per identità artistica e per curriculum”, suggerisce il foglietto distribuito all’ingresso, in cui si propone anche una spiegazione sul come trovare le opere di Alessandro Piangiamore e Cesare Pietroiusti, ai nostri occhi un po’ bistrattati da una segnalazione francamente semplicistica.
Un cenno critico sul progetto espositivo e sulle varie opere è il minimo che ci si aspetti da una mostra tanto grande e presentata in un tale contesto. Il tema è il confronto tra archeologia e arte contemporanea, un binomio non certo nuovo, ma che lascerebbe spazio ogni volta a nuove possibilità di incontro e suggestione. Se solo la mostra trovasse la sua origine in un’idea ben studiata. Quello che il visitatore si ritrova a guardare invece è un insieme di lavori. Senza alcun reale progetto curatoriale. Opere site specific, ci dice la curatrice Eleonora Sgaravatti. Si tratta di lavori posti in loco -questo si-, ma se per site specific s’intende -come solitamente s’intende- lavori ideati per lo spazio in cui sono inseriti e che con questo si confrontino, allora c’è da discutere.
Sono pochissimi gli artisti che realmente hanno dialogato con l’ambiente: Pablo Echaurren, che ha lavorato sulla pavimentazione, il già citato Piangiamore, che ha proposto una lettura ironica delle tradizionali cartoline da bookshop; e poi Cesare Pietroiusti e Octavio Floreal.
Il primo spinge il visitatore ad una caccia al tesoro nel sito archeologico, alla ricerca dei suoi fili d’erba dorati (ad ogni fortunato un’autentica dell’opera durante l’opening), mentre Floreal trasforma una piccola cabina –sfortunatamente ora danneggiata– in una porta su il nuovo mondo. Portando i suoi piccoli elementi scultorei colorati direttamente dentro –ed oltre– un arco della Villa.
Per il resto, a parte la sempre incisiva personalità di Luigi Ontani, il merito della mostra sta nello spingere alla riflessione sugli interrogativi proposti in apertura. A tal proposito si pone un parallelo con la mostra Written City, conclusasi giusto in concomitanza con l’apertura di OutArt . Saltano subito agli occhi le enormi differenze rispetto alla proposta di Giulia Ferracci, Gabriele Gaspari, Valentina Grillo, Valentina Leone e Igor Renzetti –anch’essi curatori agli inizi come la Sgaravatti– che, per le strade di Frascati, hanno presentato un progetto ben concepito, con un’attenta scelta degli artisti, tutti effettivamente chiamati a lavorare sul contesto. Un lavoro scrupoloso che li ha visti coinvolgere anche le istituzioni ed esprimersi con la produzione di un catalogo.
Volendo allora trasformare le domande iniziali, potremmo retoricamente chiederci se basti una bella location per fare una bella mostra o se, invece, non siano necessari anche una certa conoscenza del panorama artistico contemporaneo e una buona dose di spirito critico. E, se si sceglie di misurarsi col passato, aldilà della scenografia, una certa ricerca in campo storico renderebbe più semplice un compito già di per sé complicato. Per il resto, certo, anche lo spettacolo ha la sua ragion d’essere.
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mizzeghaaaa!!!
Considerazioni indiscutibili; direi che la mostra è assolutamente priva di critico-curatore. Piuttosto si è provveduto ad un PR che reclutasse tramite conoscenze artisti tra di loro amici e concludesse un accordo con la Sovrintendenza per l'occupazione -a questo punto abusiva- della meravigliosa Villa dei Quintili, terminando il proprio lavoro con uno snocciolamento di poche opere sul terreno di un contesto enorme, perse, disperse tra l'erba, ingiungibili, faticosamente e a volte per nulla godibili data la fatica delle scarpate, di cartine che non funzionano, di nominativi giunti a crocette che non coincidono. Si è provveduto inoltre ad organizzare una bella Festa. Questa si che valeva la pena: l'unico "dovere essere" nel posto giusto, molto difficile da capire (non c'era niente da capire), molto radical chic, molto -désolée- inutile...
Tutta la vanità del nulla. Nulla leggerissimo ma volgare, mi manca qualcosa perché possa forse essere qualche volta elegante
maddai, e gli artisti sono sempre innocenti?
comodo prendersela con una curatrice giovane alle prese con nomi non proprio di primo pelo!
chi è che deve "interpretare" lo spazio, l'artista o il curatore?
un buon curatore non era forse quello che lasciava illimitata libertà di manovra all'artista, una volta invitato?
ma forse avete ragione voi: snobbare un progetto intervenendovi senza onorarlo, è diventato da veri fighi!
Artisti innocenti e curatori colpevoli? non si sta facendo un processo, ma compito del curatore è anche quello di scegliere gli artisti giusti per la mostra che ha in mente .E'il curatore che ha invitato gli artisti ed ha ideato il progetto. E' quindi responsabile in primis del risultato. Anche degli artisti che non abbiano saputo lavorare sullo spazio. Forse altri artisti avrebbero prodotto dei lavori migliori o forse no.
Ma scegliere un artista solo per il grande nome che porta è un grave errore. E "piazzare" li artisti così lo è ancor di più.
Non per ripetere quanto detto nell'articolo, ma anche i curatori di Written City hanno scelto nomi importanti del panorama artistico contemporaneo, ma il risultato non è certo lo stesso.
E comunque caro ridolini, hai visto la mostra o intervieni solo per intervenire?
il buon curatore è quello che lascia libertà totale agli artisti?
E allora a cosa serve il curatore?
A fare un po' di telefonate?
Harald Szeemann, sic transit gloria mundi...
Sponsor...., Location pazzesca, Artisti alti e bassi ma cmq buoi nomi sulla carta.......cmq doveva essere un successo.........menomale che ognitanto si notano e si dichiarano con onestà questi sfondoni...che oramai in ognicaso sono ovunque e comunque!....... Anyway complimenti alla sfacciatagine ed il coraggio che l'anno realizzata! ;) mi ha divertito passeggiare lì in mezzo....studiate ed abbiate amor proprio o voi che vi esponete al pubblico! grazie! (il rispetto si ottien con il rispetto)
sono in completo disaccordo con i commenti letti....innanzitutto viva il coraggio di utilzzare un sito archeologico così bello e così poco conosciuto e sfruttato , coniugando l'archeologia e l'arte contemporanea con opere che ho trovato molto interessanti e che si fondevano alla perfezione con la bellezza del posto .
trovo che il curatore abbia avuto una ottima intuizione ,ben vengano altre di queste inteliggenti iniziative.
Sono in completo disaccordo con la critica della Signorina La Paglia. La mostra non era di facile concezione ed ha avuto il merito di sdoganare une bellissimo principio, che a Roma non si vedeva da tanto tempo, inserire l'Arte contemporanea nelle bellezze archeologiche romane.
Eleonora Sgaravatti ha avuto il merito indiscutibile di aver scelto degli artisti eccellenti, alcuni emergenti, altri affermati che hanno saputo collocare delle opere con
particolare sensibilita', penso in particolare ad Ontani, Guendalini Salini e Sandro Sanna.
In Gran Bretagna si dice che e' una questione di feeling, e il feeling non lo produci sulla carta, cara La Paglia, ma liberando gli spazi e dando piena liberta' agli artisti, cosa che Eleonora, al un debutto, ha saputo fare.
Mi auguro che le iniziative postive ed innovative non vengano castrate dalle apologie di stampo socialista, che a Roma non trovano piu' spazio. A Roma c'e' spazio per il futuro e questo la Sgaravatti lo sa.