Domanda: è possibile contenere una città intera, una città come Roma, in una mostra? Prima di rispondere con un’alzata di spalle, immaginare mastodontiche celebrazioni iconografiche che accozzino Vanvitelli all’ultimo esponente della scuola di San Lorenzo, oppure giocare le solite carte del macrocosmo e microcosmo con l’arte a fare da croupier, provate a visitare la mostra in corso di Hynd e Contreras. Inglese il primo, spagnolo di Galizia il secondo, entrambi vivono da decenni nella capitale, dedicandosi a scandagliarla con mezzi espressivi ed estetici molto diversi, ma accomunati da una rara capacità di guardare diagonalmente le cose, di estrarre da particolari minimi ed evanescenti tracce nascoste di senso.
Nel caso di Jonathan Hynd, le reminescenze dei suoi studi di architettura filtrano attraverso la quieta ossessione che l’opera tradisce per la resistenza della materia, la presenza fisica del colore. Secondo le sue stesse parole, “a Roma credo che lo spazio sia come più densamente riempito di materia che nei paesi del Nord, e traendo ispirazione dalla città, ho cominciato ad usare nuovi materiali e pigmenti locali”. Nel limitato spazio a disposizione in galleria, Hynd prova a dare conto di una simile densità attraverso l’accumulazione di piccoli quadrati realizzati con del cartone recuperato a Porta Portese, un materiale impregnato di viaggi e commerci quotidiani su cui il colore si posa in strati successivi, scrostati e grattati come le mura della città. Fino a farsi meditazione sul tempo vissuto
Ci si sposta di un paio di metri appena e, nella saletta dedicata a Nito Contreras, lo sguardo è subito catturato da entità materiali, al contempo stranianti e familiari. A un bolide in alluminio, appoggiato a terra come una stele primitiva, si accompagna ora un disegno misteriosamente minimo, ora una serie di quadri scultorei dove la calda lucidità del rame si piega in angoli e rientranze, viene scandita da tagli e fori. Sono –per usare la definizione dell’artista– forme geometriche emergenti dalla planimetria della metropoli, estrusioni dalla cartografia ufficiale che Contreras percorre fisicamente a piedi ricreandola con imprevedibile individualità, attraversa nel suo andare cittadino seguendo le linee di un personalissimo piano regolatore, sulle orme degli psicogeografi che furono tra i fermenti più potenti dell’esaltante stagione situazionista. Luther Blissett ha dedicato pagine entuasiaste alla strategia di riappropriazione dello spazio cittadino che da anni Contreras conduce, e merita pure considerare come si stia riaffermando nella città un interesse nei confronti di ricerche in tale direzione (si pensi, ad esempio, all’importante esperienza del gruppo Stalker).
Quello che, ad ogni buon conto, si ritiene di dover rimarcare nell’opera di questo splendido isolato, è la sua autenticità fatta di poesia e anarchismo, dove la riflessione più slanciata sulle ali di Debord e Deleuze si materializza artisticamente in opere che hanno l’intensità dei più arcaici petrogrammi, affioranti come dettagli d’attenzione dal caos urbano che nella distratta quotidianità tutti attraversiamo. La Città, insomma, è fatta di come la riconosciamo andandovi, con l’arte a fare da maestra in questa inaspettata scuola di percezione.
luca arnaudo
mostra visitata il 24 novembre 2006
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