Sintetico spesso sta per finto, fittizio, più genericamente per non-reale. Come l’analogico sta al digitale, così il naturale non chiede il sintetico; il vero è ricco, la sintesi è discreta, è implicita in essa l’atto di selezione.
Stefano Cerio (Roma, 1963) dunque sceglie. Edifici, discariche, particolari di un cimitero che si fatica a credere possibile, tutti elementi avulsi da ogni riferimento esplicito al luogo di edificazione o alla cultura di chi vi abita. In ciò risulta coerente la scelta di non titolare le opere. Le fotografie in grande formato pendono, incorniciate e sotto vetro, dai pannelli che percorrono perimetralmente la piccola sala espositiva. Nei suoi contenuti, l’opera complessiva di Cerio è
“il trionfo del kitsch” (Marziani). La sua attenzione è alla pienezza visiva degli accessori -ninnoli e cristalleria di dubbio gusto- negli interni di un qualunque negozietto cittadino, alla chiesa dal tetto decorato impropriamente con astri, alla desolazione di un outlet perfetto, e così vuoto, se si pensa che vive solo per l’atto che orienta il consumo e da questo nasce.
Cerio si astrae, non ha bisogno di essere padrone espresso dei suoi scatti, perché ciò che viene comunicato sta nell’oggettività, seppure patinata, della fotografia (si percepisce l’influenza del mondo della moda, che è parte della sua formazione). La cornice, il vetro e la luce della galleria contribuiscono a creare un effetto anomalo quanto involontario. La pellicola appare flessa, morbida, portando l’ambiguità del reale all’estremo: non c’è bisogno di dimostrare il vero, perché è talmente grottesco da non sembrarlo.
L’allestimento tradizionale delle opere, le fotografie-quadro, non cercano di creare uno spazio in cui il visitatore possa virtualmente proiettarsi: tutto appare sottovuoto, in vetrina. Esemplari le tre opere che immortalano le lastre in marmo del cimitero per animali domestici, le “commoventi” epigrafi, le piccole foto che ricordano i defunti, e fiori ovunque ad accompagnarne l’ipotetico viaggio nel regno dei cieli.
La trasteverina Cedro26 introduce il visitatore in uno spazio familiare, in cui la contemporanea modalità di esposizione di opere d’arte, che distingue le gallerie d’arte dagli altri luoghi della socialità o del consumo, sembra svanire a fronte di un allestimento di vecchio stampo, che ricorda le atmosfere dei corniciai del centro storico della Capitale. Con cura sono disposti i due scatti delle diverse facciate della chiesa suddetta, che convergono ad angolo e orientano l’osservatore verso una terza, in cui l’edificio s’impone frontalmente. Una nicchia, in fondo alla sala, ospita una delle opere dedicate al cimitero degli animali, una piccola provocazione per una struttura-forma che accoglie e si raccorda all’opera-contenuto. Qui cade l’oggettività e si aiuta l’eccesso narrato a rendersi ancor più evidente. Tanto più palese risulta allora la presenza dell’artista, quando ci si accorge che il sintetico di Cerio è presente in ogni luogo, quello urbano, abituale e il più reale.