Figure nere, corpi scheletrici, frammenti. Di immagini, cose e persone. E di parole, pure. Pochi i volti; tante, invece, le presenze, nell’opera inquieta di
Jean Michel Basquiat (New York, 1960-1988) in mostra a Palazzo Ruspoli. Oltre quaranta i lavori (dieci dei quali mai esposti prima) che raccontano l’artista capace di ritrarre la realtà cruda di una precaria esperienza urbana.
Non ci sono e non potrebbero esserci quadri né cornici preziose in una mostra di Basquiat, ma porte in legno, finestre e tavole dipinte o collage di fotocopie disegnate, colorate, incise. È questo il modo in cui l’
enfant terrible dei sobborghi di New York comunica col mondo e lo sfida: alla ricerca di un’affermazione sociale prima che artistica.
Basquiat immortala il “vero”, il vissuto, il (tristemente) quotidiano, permeato dal disagio interiore di un nero in una società razzista. Fin dai primi anni di attività, quando ancora minorenne e già fuori dagli schemi, lontano dalle convezioni, si presenta alla Downtown newyorkese con la sua rivolta graffitista, racchiusa nell’acronimo che sceglie come firma:
Samo, da “Same Old Shit”.
Espressione dell’innocenza perduta che riecheggia nei soggetti più volte ripetuti, che affondano le radici nel fertile ma sconnesso terreno della sua giovinezza: auto, aerei e grattacieli; simboli, fumetti, giochi o cartoni animati.
Visioni frammentate di un passato che, forse unite al disagio del presente, si traducono nei “
fantasmi da scacciare” – messi in risalto nel titolo della rassegna – che ne tormentano l’esistenza; è lo stesso Basquiat a farlo notare, ripetendo quel
to repel ghost in diverse tavole, tre delle quali esposte nella mostra romana.
Il “corpo” è la figura più ricorrente nelle sue opere: presentato prima con immagini dello stesso artista in varie sembianze, per poi divenire una presenza quasi ideale ma tracciata attraverso una carica emotiva tradotta in linee e colori. Del corpo umano rimangono spesso i soli organi, in una
Gray’s Anatomy – opera scientifica che lo affascina durante l’infanzia – esasperata nella (spesso totale) decostruzione della realtà.
La mostra è sì contenuta nelle dimensioni, ma le opere offerte (provenienti da Germania, Belgio, Francia, Italia, Austria, Svizzera e Stati Uniti) rendono piena rappresentatività della cruda ma profonda poetica di Basquiat, con un insieme di creazioni incentrate proprio sulla sua visione frammentata del corpo umano. Un curato percorso espositivo saggiamente allestito – e puntualmente illuminato – consente di apprezzare appieno i suoi lavori, entrando a poco a poco nella visione del mondo propria dell’artista, ripercorrendone
en passant la tormentata esistenza.
Va da sé l’imbattersi nel suo profondo disagio interiore: cruciale nell’attività artistica, ma letale per la sua vita sopraffatta dalla dissolutezza, che lo porta alla scomparsa prematura. Dopo un’intensa ma fulminea carriera consumata (appena otto anni, ma di successi), lanciato sul mercato dell’arte dall’amico
Andy Wharol – con cui è ritratto in uno dei cinque scatti inediti di
Michael Halsband offerti dalla mostra – per poi esserne ingoiato. Risucchiato dalle logiche consumistiche della stessa società dalla quale tentava di sfuggire.