Per la prima personale in un museo italiano Jenny Saville espone dieci tele di grande formato, alcune delle quali realizzate per l’occasione. L’odore d’olio aggredisce l’olfatto prima che il sipario si apra sulle figure e sulle scene, emana fresco dalle pennellate pesanti, dalle lingue di colore che esumano i corpi di donne e animali. In effetti, come è stato notato, a dispetto delle misure lo spettatore sembra talvolta ritrovarsi in una galleria di quadri “osceni”, la più segreta e la più raffinata, come nel cuore di una collezione seicentesca.
Sono passati quasi dieci anni da Sensation, la mostra dei Young British Artists che nel 1997 consacrò Saville e altri protagonisti del panorama odierno, alimentando al contempo una riflessione sull’estremo in arte. Oggi è possibile, qui al Macro, a Napoli e in alcune gallerie del Nord, considerare gli esiti di quell’onda violenta, svolgerne in parte le storie.
Il sentimento più diffuso nella critica, se non nel mercato, è che le cariche trasgressive sprigionate dalle creazioni di Hirst e compagni si siano dissolte in una costellazione di sapienze formali, minata ai limiti da un peccato di autoreferenzialità.
Le opere di Saville non turbano questo quadro, e anzi propongono un sicuro intreccio di effetti e motivi. Il primo dato è la fortissima volontà di pittura (anche nel senso di una personale storia dell’arte), confrontata senza timidezze con altri codici novecenteschi, in primis la performance art femminista, la body art, l’oggetto fotografato e Cindy Sherman.
I corpi obesi, le teste tumefatte e le carcasse decollate, originati da una fotografia scattata dall’artista, sono insieme il risultato di una messa in scena calcolata otticamente e un’immissione potente di materia e colore. Sono percorsi a tratti quasi autonomi, e comportano da una parte una differenziazione percettiva e interpretativa a seconda della distanza con cui si guardano le tele, dall’altra una sorprendente precarietà di esistenza delle stesse figure sanguinolente. Questo doppio registro seduce e irretisce lo sguardo, lo invita alla cruda classificazione delle speci, dove il coltello ha inciso una carne già devastata o mutata dai rituali contemporanei.
Non è solo il momento lesivo dell’integrità di un corpo o di un’identità a strutturare le narrazioni di Saville; il punto finale è una pittura descrittiva e analogica, una immaginaria ricomposizione post mortem, come se ai fini dell’arte la pittrice adottasse pratiche “neutre” di osservazione scientifica.
francesca zanza
mostra visitata il 25 gennaio 2005
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