Opera per l’Ara Pacis è un’opera site specific modellata dal ruolo determinante della luce, in un continuo passaggio dal flusso luminoso, che accarezza e non aggredisce i lavori, all’oscurità. Un viaggio visivo e sonoro attraverso le sperimentazioni di
Brian Eno (Woodbridge, 1948) con le sue “
scorribande e il nomadismo tra i rumori della vita e la tecnologia” -come afferma Bonito Oliva, uno dei curatori della mostra- e le sculture migranti di
Mimmo Paladino (Paduli, 1948; vive a Paduli e Milano). “
L’Ara Pacis dovrebbe celebrare la pace dopo la guerra, in realtà qui non c’è stata guerra, ma un felice conflitto tra linguaggi -arte e musica- per approdare ad un armistizio”, continua Bonito Oliva. “
Da una parte Paladino con una sorta di O perfetto di Giotto, plastico e tridimensionale, ci avverte che al di sotto c’é un’arte contemporanea sotterranea che fermenta e che dà una funzionalità diversa al passato. Brian Eno ha ben recintato in maniera stereofonica lo spazio in cui avviene l’apparizione dell’opera di Paladino, sviluppando anche un’integrazione con l’opera antica: con un po’ di attenzione potrete ascoltare voci che nominano i fiori che sono scolpiti sui reperti dell’altare”.
Un’atmosfera solenne, a tratti cupa ma sempre raffinatissima, pervade lo spazio del seminterrato, dominato dalla grande installazione
Treno. La memoria rimanda alle antiche cripte con le loro sepolture, come pure al deposito di un museo archeologico (prendendo in prestito, stavolta, il suggerimento di un altro curatore, James Putnam). Paladino, che per l’Ara Pacis nella nuova versione di
Richard Meyer ha ideato il grande mosaico realizzato da
Costantino Buccolieri, è da sempre interprete dei materiali poveri che, in questo contesto, si concretizzano nella terracotta, nel legno, nel bronzo, nel ferro con la patina di ruggine.
Costruita nel suo studio di Paduli, la struttura metallica di
Treno è poi stata trasportata nel laboratorio di ceramica di Faenza. Nel forno, a temperature altissime, l’argilla si fonde con il metallo, dando luogo a un insieme unico, modulato dalla forma dei corpi accoccolati in posizione fetale sparsi tra i residui della civiltà moderna: forme di scarpe, cappelli da uomo, tegole, fucili.
Quanto al musicista inglese che, ricordiamo, ha una formazione accademica in pittura, malgrado abbia lavorato al progetto attraverso la mediazione delle fotografie di
Ferdinando Scianna -chiamato a documentare iconograficamente l’installazione-, è riuscito perfettamente nell’intento di “animare” la scultura, “
liberando qualcosa di profondamente sepolto in essa”, come afferma Putnam. “
Eno utilizza il pianoforte preparato e talvolta sovrappone suoni improvvisi e frammenti parlati che sono messi in ‘loop’”, continua il curatore, “
e che dissolvono e assolvono, sono rallentati o velocizzati, amplificati o attenuati fino a risultare dei sussurri”.
Insomma l’Ara Pacis è un’“
Ara Artis”, come spiega in ultima battuta Abo: “
Un luogo di coniugazione, armistizio, duello linguistico tra due artisti di confine, un flusso in cui le arti ristabiliscono fra di loro un matrimonio morganatico”.