La galleria di Pino Casagrande propone, nell’ambito delle manifestazioni del Festival di Fotografia, una mostra di Matthias Hoch, fotografo tedesco classe 1958 che nel 2003 è stato borsista presso l’Accademia di Villa Massimo. L’esposizione comprende una quindicina di opere di grande formato che colpiscono subito per l’eccellente qualità di stampa. Le foto sono state scattate a Roma, Bruxelles, Lipsia o Amsterdam, ma le coordinate spazio temporali, oltre a non essere indicate, non contano. Queste immagini riproducono dei non-luoghi, spazi non riconoscibili che grazie al loro anonimato diventano simboli condivisi. Hoch utilizza una macchina a pellicola piana, impressionando le immagini su lastre secondo una prospettiva rigidamente frontale, senza luce aggiunta, caratterizzata da una bidimensionalità severa. Unica apertura alla tecnologia moderna è l’utilizzo di ritocchi digitali, proprio per eliminare ogni rimando a luoghi specifici. Non è un caso che la componente umana sia totalmente assente. Perché questa tensione verso l’indefinito? Se l’utopia dell’architettura del Novecento è stato il tentativo di razionalizzare i bisogni umani e tradurli in costruzioni “universali”, il paradosso insuperabile è stato però il presupporre che le necessità, così come i desideri di tutti gli uomini, siano i medesimi. Hoch, escludendo chi nell’architettura vive, sottolinea la negazione della peculiarità e dell’unicità dell’individuo. Eppure le immagini di Hoch non si ribellano, non hanno una carica di denuncia sociale. Se fossimo in ambito linguistico, potremmo parlare di significante, ovvero il segno portatore di significato. E come in linguistica, l’associazione di segni e significati costituisce un codice, così la freddezza apparente dei lavori del fotografo tedesco rimanda a un idea di assoluto fortemente simbolica e suggestiva.
Hoch del resto prosegue la tradizione dei fotografi tedeschi della cosiddetta Nuova Oggettività, nata con Bernd e Hilla Becher e approfondita dai loro allievi: Candida Höfer, Andreas Gursky, Thomas Ruff, Thomas Struth, per citare i più noti nella scena internazionale. Tratto comune di questi artisti è la stessa serialità che contraddistingue le prime opere di Matthias Hoch: le Bahnhöfe (stazioni ferroviarie) o le immagini del Reichstag berlinese prima del restyling di Sir Norman Foster. La differenza fondamentale è che Hoch fotografa lo spazio, non il paesaggio.
Negli ultimi anni il fotografo ha abbandonato la necessità documentaristica in favore di grandi formati in sé conchiusi, che fanno assomigliare sempre più le sue fotografie a veri e propri quadri. La geometria e la struttura della fotografia classica lasciano spazio ad inquadrature più originali, che liberano il potere narrativo dei dettagli senza che sia necessario porre l’accento su di essi. Se fossimo al cinema sembrerebbe di vedere un film di David Lynch o di Cronenberg. Ma qui non siamo in ambito linguistico e neanche al cinema. Non ci sono suoni, l’immagine è immobile e i soggetti sono tutti inanimati. Eppure queste foto sono vive e rimane la netta sensazione che vogliano dirci qualcosa. E questa, ultimamente, non è cosa scontata.
chiara costa
mostra visitata il 5 giugno 2006
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