La posa della prima pietra è del 1506 per mano di Giulio II della Rovere. Non a caso la mostra che celebra l’evento si apre con un suo ritratto, in asse col modello ligneo della cupola michelangiolesca (1559-1561). Prima del Buonarroti però, architetto della “Fabrica Sancti Petri” dal 1547, è un susseguirsi di progetti, proposte e ripensamenti che vede protagonisti del calibro del Bramante, Antonio da Sangallo, Raffaello e Baldassarre Peruzzi. Bramante, ribattezzato dal popolino il “Ruinante”, per dare vita al suo progetto intraprende la demolizione della Basilica paleocristiana. Per un secolo e mezzo è tutto un distruggere per ricostruire fra interminabili lotte religiose, politiche e teologiche (Riforma luterana – Controriforma). Michelangelo ottiene il riconoscimento papale per il suo piano “acciocché non possa venire alterato, riconfigurato o modificato” anche per il futuro. Un Verbale della Fabbrica (1564) ne prende atto, subordinando però al giudizio della Congregazione ogni possibile ‘modifica’. Carlo Maderno che inizia i lavori nel 1602, di fatto varia la pianta -da croce greca in croce latina- e offusca con l’estensione della sua facciata l’imponenza della cupola.
La travagliata storia della “Nuova Basilica”, a partire dalla sua fondazione, viene ripercorsa nella prima parte della rassegna. Con manoscritti autografi anche sfiziosi: l’irritata protesta di Michelangelo perché la Fabbrica non paga o la denuncia contro l’artista da parte di due funzionari. Con studi preparatori e disegni. Con ritratti di Raffaello e Tiziano dei principali committenti. Fra le testimonianze dalla Biblioteca Apostolica, un disegno a penna che raffigura Gianlorenzo Bernini, l’ideatore fra l’altro, del colonnato che circonda la piazza “al quale dobbiamo, insieme al Michelangelo, la nostra percezione
La seconda parte dell’esposizione prende il via dalla testa marmorea di Costantino, l’imperatore che, dichiarato il Cristianesimo “Religio licita” dà luogo alla costruzione del tempio sul sacrario di Pietro. Uno dei pezzi più pregiati in mostra, la Capsella eburnea di Samagher, raffigura l’edificio nel V secolo.
Al piano superiore va in scena l’iconografia di Pietro, appaiato come da tradizione a Paolo, cominciando dalla più antica: il bassorilievo di Aquileia (inizio IV secolo). Le fattezze dei due ‘pilastri’ della chiesa, il braccio e la mente: il primo, Kefa in aramaico, uomo forte e ricciuto, il costruttore, il secondo l’intellettuale greco alla Platone dal viso affilato, l’evangelizzatore combattente della “buona battaglia”, si ripropongono nei secoli. E poi capolavori come l’Apostolo Pietro inginocchiato di Rembrandt, un Pietro in posa umile, la luce tenue che ne accentua le rughe su fronte e mani o la Crocifissione del Caravaggio, di toccante realismo o ancora di El Greco, una delle versioni più famose del ciclo Pietro penitente. Nella sala conclusiva, con le testimonianze devozionali, il pezzo più carico di significati. Il frammento di intonaco rosso graffito “Petros eni”, rinvenuto nei pressi della tomba dell’apostolo. Gli epigrafisti, a cominciare dalla scopritrice Margherita Guarducci, lo sciolgono in “Petros en estin” ossia “Pietro è qui“. Slogan di un programma ideale, tende a riscoprire l’attualità di Pietro e per dirla con le parole di monsignor Ravasi, prefetto dell’Ambrosiana, propone “un altro tipo di Chiesa, più sepolta nel seme della terra, nella profondità delle sue origini”.
lori adragna
mostra visitata il 12 ottobre 2006
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