Ecco come
David Adjaye (Dar-Es-Salaam, 1966; vive a Londra) ha concluso il 2007: a settembre inaugura il Bernie Grant Arts Centre
e la prima galleria d’arte pubblica a Londra dal 1968, Rivington Place. Appena prima era stato consegnato il Centro Stephen Lawrence a Deptford. Sempre Londra. A ottobre, il nuovo museo di arte contemporanea di Denver, in Colorado.
La norma prevede che chiunque si occupi di lui debba prima analizzare il network che lo avrebbe avvicinato a queste commesse. Certo, non bisogna scavare per associare Adjaye alle prime espressioni pubbliche della cultura afro-britannica e ad alimentare il gossip ci si mettono anche le amicizie personali eclatanti e gli incarichi ottenuti, da
Obi-wan Kenobi (Ewan McGregor) a
Chris Ofili.
Raccogliamo tutto questo materiale sotto la voce “necessità di etichettatura rapida minimo comun denominatore dell’approccio critico contemporaneo” e ripartiamo da
Stefano Boeri che, commentando lo speech dell’architetto alla British School, centra ovviamente due temi più sostanziali.
David Adjaye lavora con artifici semplici sull’incremento del senso di attesa di chi percorre i suoi edifici. Attorno a ogni spazio notevole dispone un percorso cui vengono sempre riservate le attenzioni più evidenti.
Nello Stephen Lawrence Center la capacità di diffusione luminosa della facciata in polipropilene è tutta per i percorsi a “c” che avvolgono le sale interne, illuminate solo artificialmente. Il tema è ancor più evidente nel padiglione realizzato a Venezia per accogliere l’installazione di
Olafur Eliasson,
Your Black Horizon. Prova definitiva di questa modalità? Il suo studio di Londra. Vasta sala quadrata, un offset di armadi bianchi a due metri dalle pareti, al centro gli spazi di lavoro.
Stefano Boeri non crede poi alle credenziali africane di Adjaye. No, infatti, non se ne parla. Se non per la naturalezza del personaggio. Quanto mai gradito, infatti, il ricorso veloce allo stile in progetti che non invocano metafore, analogie formali o le altre stupidaggini che ci vengono propinate di solito. Niente nuvole, liuti, patate. Per la fortuna dei suoi clienti, Adjaye riceve suggestioni evidentemente dal profilo più basso che entrano in modo semplice e diretto nei suoi edifici.
Qualcosa però si può avvertire. Il largo uso del nero, l’intensità di alcune soluzioni (il peso della facciata di Rivington Place o la cappa di ingresso all’auditorium del Bernie Grant, l’uso del verde e del rosso in alcuni interni o nel lavoro con Ofili).
È qui che può accadere qualcosa di
africano nella carriera del quarantunenne Adjaye. La sua architettura non è positiva nel modo in cui ci ha abituato il solito tono minimo più o meno bene applicato al rapporto architettura-arte (almeno in un intervallo di qualità che va da Gonzalez-Haase a Sejima-Nishizawa). Qualcosa, al termine dei suoi percorsi, resta irrisolto e non tranquillizzante.
Qualche metro quadro
by Adjaye è praticabile alla Casa dell’Architettura di Roma. Il padiglione Horizon e la collezione Monoform offrono qualcosa di questa sensazione. Visitateli a edificio vuoto.
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così si scrive di architettura. dimostrazione che uno stile fumoso e lontano dalla realtà non è proprio così necessario. bene diffuse.in fondo il personaggio adjaye è così rilassato che non c'è molto - per ora - da dire se non quanto individuato da boeri. anche quella linea più inquietante ed africana.