Lo spettatore disattento, che non ama badare alle date sui cartellini, può trovarsi spaesato visitando la mostra di
Lucio Fontana (Rosario, 1899 – Varese, 1968) in corso alla Gnam. Sì, perché il percorso procede
à rebours, partendo dai
Concetti spaziali del 1967 per arrivare alle sculture in gesso dei primi anni ’30. Un viaggio che comincia con la fine, che muove dalla consacrazione per giungere agli esordi. Scelta non particolarmente felice per un primo approccio “didattico”, che compensa però con un allestimento scenografico, scandito da una pannellatura zebrata e ispirato a quello pensato da Luciano Baldessari per la retrospettiva a Milano del 1972.
Il primo sguardo è così catturato dalle
Nature del 1959-60, masse in bronzo che sembrano rotolare su una pedana inclinata, pur rimanendo bloccate nella loro possenza.
Una visione da incipit kubrickiano, che conserva la firma di Fontana nelle scanalature che incidono le masse, corrispettivo scultoreo dei più celebri tagli inferti alle tele. Si procede così tra le strutture in ferro e metallo, anch’esse trasformate in
attese e
concetti spaziali. Un linguaggio poverista ante-litteram -siamo nel 1958- che conduce all’
Ambiente spaziale a luce nera, scatola illuminata al suo interno dalla fredda luce di Wood.
Numerosi disegni fanno da spartiacque con le sezioni dedicate alla scultura degli anni ’30 e ’40, progetti tra i quali compare il groviglio luminoso al neon per lo scalone della Triennale di Milano e da cui si evince un interesse costante per la sistemazione delle forme nello spazio, vero
fil rouge in tutto il lavoro di Fontana. Si succedono dunque realizzazioni in ceramica e mosaico, e poi ancora in terracotta, bronzo, argilla. La duttilità di alcuni materiali, nonché le possibilità cromatiche delle tessere musive, mostrano l’interesse per una sperimentazione viva, che non si ferma all’utilizzo di tecniche tradizionali. È, con ogni probabilità, ciò che l’artista intende quando afferma: “
Io sono uno scultore e non un ceramista”.
Alla fine del tragitto ci si ritrova dunque al punto di partenza: figure maschili e femminili vengono plasmate con materiali grezzi, in contrasto con quelli “accademici”. Sculture bidimensionali appaiono esposte come quadri, interessante capovolgimento rispetto a quello che avverrà in seguito con lo squarcio della tela, segno del passaggio a una dimensione altra. Argan definì tali esperimenti “
sondaggi per determinare una nuova riflessione”, indice di una ricerca che stava maturando.
Il tutto avviene sotto gli occhi o, meglio, le opere dei grandi contemporanei di Fontana, anch’essi impegnati in una sperimentazione divisa tra segnico e materico:
Klein,
Castellani,
Manzoni,
Bonalumi,
Colombo,
Burri. A pochi passi c’è la sala della collezione permanente. Per chi volesse fare un riepilogo. E reincontrare il Fontana più noto.