L’amore
per la fotografia, per
Mimmo Jodice (Napoli, 1934), nasce nei primi anni ’60, con la consapevolezza delle
potenzialità del mezzo. Indigesto per lui, che veniva dalla pratica di pittura
e scultura – nonché da una certa frequentazione del teatro d’avanguardia –
accettarne, in particolare, i pregiudizi. Alla voce ‘fotografia’, nel
vocabolario italiano, Jodice aveva letto che era un sistema per rappresentare
fedelmente la realtà, ma quest’etichetta gli andava un po’ stretta, così decise
di fotografare la mano a grandezza naturale, completando il lavoro scrivendo
con l’inchiostro blu “
vera fotografia”. Questa è la storia di
Fotografia vera (1978), splendido esempio della sua poetica
concettuale e sperimentale. Un’opera che, insieme alle immagini strappate e
alle sperimentazioni fatte in camera oscura degli anni ‘60, è la tappa iniziale
nell’antologica
Mimmo Jodice,
curata da Ida Giannelli a Palazzo delle Esposizioni.
Un
lungo cammino, serio e coerente, che arriva a oggi, attraverso momenti
successivi:
La stagione sperimentale,
Gli anni dell’impegno sociale,
Il Mediterraneo e la riflessione sui luoghi,
Eden e la riflessione sulle cose. Un omaggio romano al maestro napoletano, che
anticipa il tributo parigino con le due personali
Mimmo Jodice: Naples
Intime, all’Istituto Italiano di
Parigi e la retrospettiva
Mimmo Jodice. 1960-2010 alla Maison Européenne de la Photographie.
Fotografare,
per Jodice, è un impegno che nasce sempre dalla riflessione. Nulla è casuale
nella sua ricerca. Continua a fotografare in bianco e nero, per dare più
margine alla fantasia di appropriarsi del soggetto, di interpretarlo.
Quanto
al discorso sul digitale, è esplicito: “
Ho 76 anni e per cominciare a
lavorare con il digitale, senza stravolgere la mia identità, dovrei
impossessarmi di questa tecnica, lavorandoci a lungo, senza allontanarmi dalla
mia visione”. Motivo per cui
continua a fotografare alla maniera tradizionale, considerando tuttavia il
digitale come una conquista dalle notevoli potenzialità, purché i fotografi non
perdano di vista il rigore, l’autocritica, la progettualità e, soprattutto, la
capacità di sapersi sempre emozionare.
Fra
i temi più cari esplorati, nel corso degli anni, dall’artista ci sono il mare,
il mito, l’antico, ma la fonte d’ispirazione principale è sempre stata la sua
città. “
Certamente mi sono scansato tutte quelle situazioni deleterie che
fanno parte di un certo teatro, di luoghi comuni, di quella dimensione popolare
che non mi riguarda. L’ispirazione è stata anche indiretta, come in ‘Eden’
(1995), nata da una mia rilettura della natura morta. A Capodimonte, dove ho
lavorato anche per documentare fotograficamente le opere, si stava organizzando
una mostra sulla natura morta. Guardando i quadri antichi, mi chiedevo come mai
quel genere fosse finito. Certo, quelle rappresentazioni erano molto piacevoli
e rassicuranti, belle tele di frutta e fiori con coppe e altri oggetti, da
collocare nel salotto o nella sala da pranzo. Decisi, così, di recuperare quel
genere, però lo ribaltai facendolo diventare la metafora della violenza,
dell’aggressività”.