Il processo di Bolin raggiunge i suoi esiti migliori nel momento in cui questa mimesi è innescata da una reazione, come è avvenuto nel 2005 dopo la decisione delle autorità di Pechino di demolire il Suojia Village International Arts Camp dov’era il suo studio: la prima delle sue social sculptures è quindi uno strenuo tentativo di non recidere il filo che lo legava a un luogo che, prima delle macerie, era uno spazio privato di vita e lavoro. Ancora nella piazza di Tien An Men privato e politico sono messi in simbolica tangenza: il volto dell’artista scompare in quello di Mao, ma si tratta ancora di una sovrapposizione. A partire dal 2008 il viaggio prosegue in Italia ma il retaggio cinese, che di fatto ha innescato tutta la serie di Hinding in the City, rimane nella scelta di indossare sempre lo stesso simbolo di coercizione: una uniforme militare che viene poi ricoperta di colore e parla di volta in volta di una realtà diversa. Perché proprio l’Italia? «La maggior parte degli artisti, storicamente, ha sentito l’esigenza di confrontarsi con questo Paese. La stessa relazione esiste, a mio avviso, tra la cultura cinese e il continente asiatico». Ma ciò che manca all’est è la capacità di conservare il passato e forse per questo l’artista, tra i luoghi dello stivale, sceglie quelli dove ci si sta prendendo cura di qualcosa che è stato: ravvivandolo, come nei teatri, tutelandolo (?) a Pompei e conservandolo, come nelle biblioteche di Verona, inizio e fine del suo viaggio.
Eleonora Minna
Liu Bolin, A Secret Tour
a cura di Raffaele Gavarro
Museo Hendrik Christian Andersen
Via Pasquale Stanislao Mancini, 20 – 00196 Roma
Orario: da martedì a venerdì ore 9.30-18.30, sabato e domenica ore 9.30-19.30 (la biglietteria chiude 30 min, prima)
Ingresso libero
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