Di fronte ad una mostra intitolata a Pablo Picasso, con un parterre ristretto, ma d’eccezione di circa 40 opere (alcune esposte per la prima volta in Italia), di cui solo sette sono del grande artista, viene spontaneo porsi qualche interrogativo. Organizzato dalla Fondazione Memmo e dalla Fundación Marcelino Botín (Santander), l’allestimento arriva a Palazzo Ruspoli dopo essere stato ospitato nella sede spagnola. Il curatore, l’americano Pepe Karmel, ha pensato questa mostra con un duplice fine: da una parte, evitare la solita esposizione in massa di quadri di Picasso ed illustrare con poche opere l’influenza del genio sull’arte del suo tempo, dall’altra sottolineare l’importanza delle fonti da cui tutte queste opere provengono. Si tratta infatti –e qui sta la particolarità- di raccolte private donate ad istituzioni pubbliche.
La prima sala della mostra è dedicata proprio ai collezionisti. Molti i nomi e le storie ad essi legate, come quella di Joseph Hirshhorn (1899-1981) che rappresenta lo stereotipo della favola americana dell’emigrante povero self made man. Diventato ricco fece del collezionismo il suo passatempo preferito scegliendo spesso opere di artisti con vite difficili come la sua. Dalla sua raccolta (quasi 6.000 opere donate) proviene la Donna con cappello di Picasso. O ancora la famiglia di Gertrude Stein, la prima importante collezionista americana del genio spagnolo, per merito suo (all’interno del bagaglio) entrò il primo Picasso negli Stati Uniti.
Sono presenti gli Arensberg -che nel 1950 insieme alla collezione di Albert Gallatin (confluendo entrambe nel Philadelphia Museum of Art)- diedero vita alla più ricca collezione di opere di Picasso degli Stati Uniti. Quel che vorrebbe emergere, allora, in chiave un po’ edulcorata è proprio la particolarità americana di uno spirito promulgatore dell’arte, col fine ultimo di restituire un patrimonio a tutti accessibile.
“La convinzione che l’arte sia patrimonio pubblico ha avuto presumibilmente origine nella nazionalizzazione delle collezioni reali in Francia verso la fine del Settecento oppure negli Stati Uniti con l’atto istitutivo del Metropolitan Museum nel 1870” scrive FitzGerald in catalogo “ma negli anni Venti gli americani rivoluzionarono questo concetto spalancando le porte alle provocazioni dell’arte contemporanea. Questo processo fu certamente reso possibile dall’ampia disponibilità di denaro di quel decennio, ma nemmeno la Depressione che è seguita lo arrestò.”
Così attualmente il MoMA possiede la raccolta più completa al mondo dei capolavori dell’artista, ma ci sono ancora opere da recuperare “se si vuole che la presenza di Picasso nel pubblico sia almeno equivalente al suo successo nel privato e dimostrare davvero il profondo impatto che la sua arte ha avuto sugli Stati Uniti” spiega ancora FitzGerald.
E’ infatti impossibile comprendere l’arte americana degli anni ’40 e ’50 senza considerarne l’influsso picassiano. Questo l’altro risvolto della mostra. Divisa in varie sezioni che seguono l’iter della pittura del grande maestro dal Cubismo Analitico a quello Metamorfico (un arco cronologico che arriva fino agli anni Quaranta), le sale contengono almeno un’opera di Picasso a cui fanno da eco artisti europei e americani. Il primo tema è quello del paesaggio: c’è la veduta di Horta del Ebro di Picasso e, tra i tanti, segnaliamo un bellissimo, ma poco noto San Gimignano di Alexander Kanaldt. Troviamo di nuovo un paesaggio nella sala dedicata al Modernismo classico: è Duo di Stuart Davis, risposta tutta americana a Picasso.
Gran finale con l’Espressionismo Astratto: protagonisti Willem de Kooning, Gorky, Pollock e –accostamento piuttosto curioso- Mirò. Qui è evidente l’influenza della continua trasformazione cubista, che diventa fonte d’ispirazione per i segni quasi ideogrammi di Mirò e spinta propulsiva all’Action Painting.
valentina correr
mostra visitata il 27 ottobre 2004
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ho un libro di potok da far scorrere alle mostre di Picasso