“Una di quelle cose bizzarre che non ricapiteranno più”. Il giudizio di Roy Stryker esprime bene sia l’originalità del progetto fotografico della Farm Security Administration (FSA), di cui Stryker stesso era a capo, quanto quella dell’opera di Walker Evans, che di tale progetto è stato uno dei maggiori interpreti. Nel pieno della ‘Grande Depressione’ seguita al crack borsistico del 29 ottobre 1929, la FSA -un oscuro ente governativo federale a cui il New Deal di Roosevelt affida l’incarico di sostenere la modernizzazione dell’agricoltura statunitense- assume una dozzina di fotografi con il compito di documentare le condizioni delle campagne e degli agricoltori nelle aree più depresse del paese. Diversi sono i nomi di rilievo coinvolti nel programma, da Dorothea Lange a Russell Lee, ma l’attività svolta da Evans (nato nel 1903 a St. Louis, una carriera di scrittore abbandonata sul nascere per dedicarsi esclusivamente alla fotografia) ha un rilievo particolare, in primo luogo per la totale indipendenza mantenuta rispetto agli obiettivi politici del programma governativo, ovviamente incentrati sul recupero e sviluppo del settore agricolo.
Dal giugno 1935 all’agosto 1936 percorre instancabile gli Stati Uniti, spostandosi tra West Virginia, Pennsylvania, Louisiana, Mississippi, Georgia, Carolina del Sud e Alabama, con un’evidente progressione verso le aree a preminenza nera, l’autentico fondo di un’America in profonda crisi economica e sociale. Le immagini selezionate non hanno nulla di propagandistico o stereotipato, e neppure trasmettono quel minimo di ottimistica speranza che il committente statale avrebbe voluto (non a caso, nel 1937, Evans cessa la sua collaborazione con la FSA). Gli scatti raccolti lungo le strade di paesi isolati e desolati -cogliendo le scene più semplici di vita quotidiana, ma anche aspetti periferici di città secondarie, cimiteri spogli, empori e uffici dove le insegne commerciali giganteggiano sulla miseria circostante- sono piuttosto un grandioso affresco dello stato della nazione, composto senza filtri di alcun tipo se non l’occhio del fotografo.
Evans cerca quanto più possibile di risultare personalmente trasparente rispetto alla scena, con un intento artistico di oggettività mutuato direttamente -secondo la sua stessa confessione- dallo stile di Flaubert in letteratura. Munito di una camera 8×10 che gli consente di ottenere estrema nitidezza nel largo formato, e lavorando di solito in una prospettiva frontale con molta profondità di campo al fine di tenere l’intera scena a fuoco conferendole maggiore coralità, fissa così un nuovo standard nell’uso della macchina fotografica, contribuendo enormemente al suo riconoscimento come mezzo artistico di primo piano. Lungi dal dimenticare l’aspetto memorialistico del proprio lavoro, il fotografo attribuisce infatti allo stesso un particolare stile documentaristico associato a un intento consapevolmente artistico, in base a un discrimine che proprio Evans, in un’intervista del 1971, esprime così: “documentaria è la fotografia della polizia scattata sul posto di un delitto. Quello è un documento. Vedi bene che l’arte è senza utilità, mentre un documento ha un’utilità. Per questo l’arte non è mai un documento, ma può adottarne lo stile. E’ quello che faccio io”.
Per rendere al meglio il proprio stile, si serve delle tecniche di stampa più raffinate, dalle emulsioni tradizionali ai sali d’argento alla rilevografia (con cui spesso ritoccava e correggeva le immagini) alla fotoincisione, spesso demandate nell’esecuzione a soggetti terzi e proseguite con la sua approvazione anche dopo la morte, avvenuta nel 1975.
Si tratta di un aspetto, questo della tecnica di stampa e realizzazione, peculiare di Evans perché raro tra i fotografi della sua epoca (soliti curare tutte le fasi dell’opera fotografica), ma che, a ben vedere, conferma proprio la caratteristica di artisticità del lavoro di Evans, interessato più all’evento fotografico della selezione dell’immagine, che non alla sua materiale riproduzione.
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