Flavio Micheli (Sursee, 1957) è un fotografo del tutto casuale. Prima scultore, poi pittore, è giunto alla fotografia per strade traverse: dalla ricerca della qualità pittorica del colore, dipingendo un monocromo su vetro, restando affascinato dalla dinamica dei riflessi. Come
Gerhard Richter, Micheli è distante dal medium fotografico, ha meno ritrosìa rispetto a questi e, tuttavia, in maniera analoga al tedesco se ne serve per sfidare la realtà.
La Nuova Pesa allestisce un percorso regolare, ordinato fra le circa trenta opere presenti nelle sale dal sapore classico, che conservano del palazzo antico il pavimento e la decorazione del soffitto. Unione fra due riproduzioni fotografiche, l’una di un dipinto popolare di autori anonimi che Micheli trae dai luoghi di vita quotidiana, l’altra della realtà concreta come si materializza alla vista dell’artista. Ne risulta un’unica inquadratura, “
un’interazione visiva” -dichiara Micheli a Stefano Chiodi- che gioca sulla messa a distanza dello spettatore, sul quale agisce il meccanismo di illusione ottica. Elementi della prima metà soprastante si mescolano a quelli della seconda, rivelando un topos univoco, che alterna concordanze di contenuto a quelle formali.
Concedendo termini alla semiotica: spesso è la natura evocativa dell’immagine a legare le due rappresentazioni nella straordinaria coincidenza degli elementi fra la “tela” e la fotografia, a dichiarare cesura fra la due e a dettare la scelta associativa.
In questo modo, il paesaggio estivo frutto del pennello di un qualche artista di influenza ottocentesca diventa tutt’uno con lo scatto di un qualsiasi giardino pubblico contemporaneo. Altrimenti uno scenario boschivo popolato da cervi allo stato brado si raccorda alla foto di un leone scattata in un presumibile zoo.
Nelle quattro sale a disposizione, le opere s’impongono in unico grande formato, più numerose invece quelle in formato ridotto. Nonostante queste condividano con le prime la medesima costruzione, la formula più caratteristico-popolare che deriva dalle piccole dimensioni si presta maggiormente all’ironia dell’inganno percettivo. Cosicché solo relativamente si coglie quella linea divisoria fra i due diversi piani che l’occhio del fruitore scopre a una distanza ravvicinata. Debitrice di
Andreas Gursky è la scelta di quei panorami che, anche quando dipinti, riempiono la superficie, simulando la presenza dell’essere umano, non direttamente visibile perché sempre al di là di ciò che è da vedere: artefice della rappresentazione della prima metà del quadro, del reale nella sua seconda metà e della visione complessiva quando ne intreccia consapevolmente i fili, accettandone l’illusione.
L’autentico dell’artista svizzero risulta dunque un qualcosa ancora da venire: alla freschezza emotiva di quadro popolare, produzione sintomatica dell’atto originario compiuto sulla tela, alla verità della fotografia che certifica la realtà, a oggi, nell’era della manipolazione e della falsificazione, nulla sembra essere più accettabile. Il montaggio di Micheli interviene non sommando le due visioni, bensì amalgamandole in maniera evidente. Perché l’autenticità sta nell’esperienza del tutto nuova che da questo sopraggiunge.