In un pregevole articolo di qualche tempo fa, Christian Caliandro -su “Exibart”- stilava un elenco di artisti la cui ricerca pare ruotare intorno a nozioni ridefinite di natura e paesaggio, sulla base dell’assunto che “
da almeno quarant’anni il paesaggio prediletto dagli artisti è quello della cultura e dei media”. Tra costoro, nella sezione dei cosiddetti appropriazionisti newyorkesi impostisi a partire dagli anni ‘70, un posto di primo piano veniva giustamente riconosciuto a
Richard Prince (Panama, 1949; vive a New York), ora in mostra a Roma con i suoi celebrati cowboy. In questo caso datati 1998/99.
Si tratta di immagini fotografiche di grandi dimensioni realizzate selezionando, rifotografando e ricombinando altre immagini tratte da fonti disparate, per lo più di natura pubblicitaria. L’intera opera fotografica di Prince appare riconducibile a tale modalità operativa, la quale fa dell’objet trouvé sulla carta dei rotocalchi il suo primo attore, poi disposto a interpretare una parte ambigua -tra l’epico e il dissacrante- su fondali o in ambientazioni tipicamente nordamericane.
È un’operazione da tempo riconosciuta ai massimi livelli del sistema dell’arte (l’ampia retrospettiva tenutasi nel 2007 al Guggenheim di New York non ne è che l’ultima conferma) e ancor più in termini commerciali, viste le quotazioni stratosferiche raggiunte in aste recenti proprio da alcuni dei mandriani di Prince. Nello specifico dell’esposizione romana, vengono proposte due serie realizzate in ektacolor alla fine degli anni ‘90 e incentrate sui profili di rudi cowboy di tabagistica memoria, disposti in paesaggi di respiro western nel senso più cinematografico del termine.
Al netto delle considerazioni in materia di proprietà intellettuale o riproducibilità tecnica dell’opera d’arte che simili opere potrebbero stuzzicare in avvocati o devoti di Walter Benjamin, la mostra permette di confrontarsi con una produzione che, se può aver costituito un momento interessante entro le evoluzioni del post-pop statunitense, nella corrente età digitale pare francamente mostrare la corda. Per farla breve, ci pare che la significatività del processo riappropriativo dei media operato da Prince finisca per diluirsi inesorabilmente in un ambiente artistico-mediatico che fa del taglia&incolla la sua prima e più diffusa strategia operativa.
Vero è che vi è già stato chi, come Nicolas Bourriaud, ha provato a svolgere un’esercitazione critica più complessa e di lungo corso sui concetti di post-produzione e riprogrammazione artistica (idee evidentemente assai calzanti per ragionare sul lavoro di Prince): anche alla fine di tale lettura, nondimeno, resta la strana impressione che nella realtà, come ammoniva l’Amleto di Shakespeare, vi siano ben più cose che nella filosofia, e che questa (insieme all’arte) spesso giochi di riserva.
Detto ciò, qualche riflessione critica sul punto in relazione alla mostra in discorso sarebbe stata senz’altro opportuna: il non trovare -nella galleria più celebrata di Roma- nulla al riguardo se non un semplice comunicato stampa fotocopiato (per di più con molti passaggi uguali alla presentazione di un’altra mostra di Prince in programma da Gagosian a Londra), certo lascia un po’ sorpresi.
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Per certi aspetti avrebbe pure ragione, ma non è che Mr.Gagosian ci ritenga nazione di trogloditi da colonizzare?
Che Bourriaud sia autore di riflessioni "più complesse e di lungo corso" e che proponga qualcosa di "filosofico" suona sinceramente eccessivo: si tratta infatti soltanto di un ex pubblicitario che rimastica banalità ad uso e consumo degli artisti che frequenta.
La mostra di Prince é insignificante come quella di Twombly
ma le quotazioni lievitano e gli italiani sì sono dei trogloditi
basta vedere chi hanno mandato al governo
gagosian è il mussolini che ci vuole per certo provinciale pubblico dell'arte e Politi, direttore della nota rivistuccia sembra Alberto Sordi che vuol fare l'ammmericcano....
bravo marco. gli italiani se lo meritano ed i romani ancor di più