Il suono e le immagini di un centinaio di esplosioni. Una frase scritta sullo schermo ricorda che tra il 1945 e il 1996 circa 2000 bombe atomiche sono state fatte esplodere sulla Terra. Peter Greenaway in ATOMIC BOMB EXPLOSIONS ON THE PLANET EARTH le ha catalogate in base all’altezza del fallout, la potenza e il luogo e la data di deflagrazione e le ha trasposte su multiscreen, per raccontare una storia. A modo suo.
Il regista d’avanguardia inglese, entrato a pieno titolo nel gotha dei più importanti film maker mondiali, da anni ormai si discosta costruzione cinematografica tradizionale e, in occasione della Lecture tenutasi all’Ara Pacis lo scorso 6 giugno, durante il festival MashRome, ha raccontato le ragioni che lo hanno spinto in questa direzione.
Dopo le polemiche innescate dalla sua dichiarazione “Cinema is dead”, Greenaway ha colto l’occasione per spiegarne i motivi e ha illustrato come, attraverso i suoi ultimi lavori, sta cercando di dare nuova forma al cinema.
Il cinema è morto, quindi, e ad ucciderlo sono stati la crisi economica e il progresso tecnologico. Per superare questo lutto, bisogna scardinare i film dalla loro forma tradizionale. E come?
Greenaway delinea quattro tipologie di tirannie che dirigono il lavoro di chi dirige film.
La prima è la cornice: un parallelogramma totalmente artificiale, dentro il quale si creano dei mondi altrettanto artificiali. L’obiettivo del regista è quello di creare una sala cinematografica che obblighi lo spettatore a muoversi all’interno dello spazio, e fruire il film in diverse prospettive. Ne è un esempio l’esperimento fatto a Milano nel 2007, all’interno della Triennale, il regista realizza uno spazio con molteplici schermi e dalle diverse forme e scale, la sala di un cinema ambientale in cui l’immagine invade lo spazio dello spettatore.
La seconda tirannia è il testo: non esiste un film che non sia basato su uno scritto, sia questo romanzo o sceneggiatura.
Per dar vita ad un cinema più libero, e per inclinazione personale – Greenaway è anche pittore – sceglie di farsi guidare principalmente dalle immagini durante la creazione di un film, per poi giungere alla narrazione.
Così è stato per Nightwatching, ispirato al famoso quadro dell’olandese Rembrandt La Ronda di Notte o per The Belly of an architect, ambientato a Roma, nato dalla voglia di raccontare una storia legata alle visionarie architetture di Étienne-Louis Boullée o ancor di più nell’esemplare caso di Last Supper, parte del progetto Nine classic paintings.
Partito da una foto ad altissima risoluzione de L’ultima cena di Leonardo, grazie all’uso di sofisticate tecnologie è riuscito a manipolare il dipinto e a dargli vita. Sovrapponendo maschere, creando tridimensionalità e profondità attraverso l’uso del chiaroscuro, arricchendo il dipinto di una dimensione temporale, creando un movimento accompagnato da un suono, elementi che contribuiscono a trasformare l’immagine di Da Vinci in vero e proprio cinema.
Eliminando così il testo si elimina anche la terza tirannia nel cinema, quella degli attori, e grazie alle tecnologie si può anche fare a meno del quarto elemento che opprime la creatività dei video maker: la camera, definita un oggetto stupido.
Citando Picasso e il suo motto I paint what i think, il regista si libera delle costrizioni del cinema tradizionale, che parte dalla realtà, e trova un modo nuovo di raccontare storie, attraverso l’uso ti tecniche di editing innovative e del mash up, di loop ed esaltanti performance di VJ dal vivo; memorabile quella all’Hangar Bicocca del 2005.
A continua conferma dell’importanza del ruolo che l’arte visiva e le sperimentazioni ricoprono nella sua opera, ha annunciato che nel 2020 il progetto Nine classic paintings proseguirà modificando il Giudizio universale di Michelangelo e che nel 2016 vedrà la luce un’opera teatrale, realizzata con Philip Glass ed ispirata alle tele di Bosch.
Perché in fondo cos’è il cinema se non un quadro con una colonna sonora?
Roberta Pucci
6 giugno 2014
MashRome Film Festival
Ara Pacis,
via di Ripetta 190, Roma
Info: www.mashrome.org