Quest’installazione ha nel tempo la sua centralità. Cosa vuol dire lavorare sulla nozione di tempo, su qualcosa che sembra fuori della diretta percezione e si può solo dedurre da un prima e un poi?
In che modo parole e immagini s’incontrano nel tuo lavoro?
Qui la scritta pone l’attenzione su un momento del tutto normale, che però rappresenta l’idea stessa di presente, consentendo di misurare un passato e un futuro. Essa crea inoltre una condizione di “desiderata comprensione” da parte del passante, il quale inevitabilmente si chiede cosa sia successo e che valore abbia quella data, dal momento che non rientra in una serie di convenzioni con un peso storico speciale. Mi è capitato spesso di sfruttare delle parole per comunicare o raccontare un’idea, ma ciò non è riferibile a una ricerca di tipo concettuale. Certo, mi sono formato inevitabilmente anche con queste cose e c’è sempre una loro leggera eco, ma è sempre più lontana. Delle parole m’interessa quello che possono generare emotivamente o rappresentare. Recuperare l’insegna del luna park Varesine è stata un’operazione quasi romantica, legata a un mio ricordo personale. Quelle lettere rappresentavano un sentimento ben preciso per me.
Come ti sei avvicinato al mondo dell’arte?
È stato un percorso abbastanza diretto. Sin da adolescente andavo a vedere mostre e musei, anche se avevo una conoscenza superficiale e non aggiornata sul contemporaneo. Dopo il liceo mi sono iscritto alla facoltà di Architettura. Lì ho fatto esperienze che mi interessavano (e che tutt’ora m’interessano) ma che, paradossalmente, hanno rafforzato la mia distanza da certe cose e l’amore per altre. Quindi ho lasciato l’università e mi sono iscritto all’accademia, dov’è scattata la decisione d’iniziare a fare in prima persona qualcosa.
Avevi artisti che ti ispiravano?
Un artista che mi ha aperto il cervello e che credo di avere capito veramente (almeno per certi aspetti) è Alighiero Boetti, che ho studiato quando ero ad Architettura con il professor Corrado Levi.
C’è un’opera che ha un ruolo chiave nel tuo percorso artistico?
Grattacielo (2000) ha segnato un punto saldo. Vi si delinea per la prima volta una riflessione sufficientemente precisa e vi sono elementi tuttora essenziali del mio lavoro. Sia dal punto di vista estetico e formale, sia per le dinamiche progettuali e teoriche: la collaborazione con altri artisti, la condivisione dello spazio con altre persone, l’accettazione di incursioni anche aggressive all’interno di quella che è una mia idea di opera, il giocare sui limiti del concetto stesso di opera d’arte e sulla posizione dell’autore. Queste cose, valide tutt’oggi, sono già lì con consapevolezza, anche se parlare di consapevolezza è presuntuoso. Non credo che un artista possa mai essere veramente consapevole. Il suo lavoro nasce dalla ricerca, dove c’è un grande margine d’errore e un’incertezza costante, oltre alla speranza di scoprire qualcosa.
La critica lega il tuo lavoro a una tradizione avanguardistica di matrice futurista e delle tue opere sottolinea soprattutto l’aspetto futuribile che il titolo di questo lavoro sembra confermare. Leggendo però da dove nascono i tuoi lavori -penso proprio a Varesine (2005) o a Revolving Landascape (2006)- mi sembra piuttosto che la memoria, o la fantasia della memoria, giochi un ruolo determinante.
Sono d’accordo. I riferimenti al futurismo sono legati a un certo impianto formale che a volte il mio lavoro possiede. E va bene. Ogni interpretazione possibile è valida e non voglio bloccare alcuna lettura in tal senso che, in qualche modo, coglie anche nel segno. Per quanto mi riguarda intimamente, però, il microclima che si genera nella mia testa quando inizio a pensare a un lavoro è veramente più emotivo e legato ai sentimenti, al ricordo, a un luogo condiviso con determinate persone. Nel passaggio dallo stato mentale all’oggetto finito quel gas nobile che è l’idea diventa materia e in questo processo si lega al linguaggio dell’arte, in cui ci sono naturalmente eco proprie della mia formazione e della mia provenienza nazionale.
In che direzione si muove ora il tuo lavoro?
Sto cercando di renderlo più semplice ed è la cosa più difficile. Ci sono tante cose all’interno di un lavoro e a volte sono forse anche troppe. Sento il bisogno di fare pulizia per cercare di avvicinarmi a un’idea più assoluta possibile di arte, di tendere all’universale pur partendo da una mia individuale originalità. Presto cambierò inoltre il contesto attorno a me e questo avrà un peso all’interno del lavoro.
Vista l’estrema esposizione dei media che riproducono in continuazione la realtà, quanto è necessario oggi per un artista saper ricreare, interpretare, trasformare la realtà e come articoli questi tre processi?
Ricreare la realtà non è necessario all’artista. Reinventarsi un mondo reinterpretando la realtà ha invece un valore. Se nel processo di comprensione della realtà uno riesce a produrre un sentimento che possa avere un valore per lui e non solo, in quel momento sta cambiando il mondo. I cambiamenti non per forza devono essere dei grandi cambiamenti.
La bellezza ha sempre un’idea, un pensiero?
Potrebbe essere un pensiero che ha un sentimento. Nelle immagini che hanno una forza e generano attenzione un pensiero c’è sempre. La bellezza è un concetto che puoi ridisegnare e rileggere continuamente, come l’idea di arte e di opera. E questo è uno degli aspetti più interessanti di questo lavoro, che non ha per forza un compito da svolgere, come accade all’architettura. C’è una bellezza culturale che è dettata dalle regole condivise da un dato contesto e che può non trovare riscontro in un altro. E c’è una bellezza assoluta che ha a che fare con le emozioni e riesce a essere più trasversale, attraversando più contesti culturali. È questa la magia di un’immagine che riesce a imporsi nel privato di un altro essere umano o nell’immaginario collettivo di più persone, nonostante l’incomprensibilità e la mancanza di motivazioni logiche o intellettuali.
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In generale ho trovato deludenti gli esiti delle opere di questa bella iniziativa di Enel. Questa di Tuttofuoco la più sconcertante. A piazza del popolo in molti si chiedevano (italiani e stranieri) che cosa fosse e si allontanavano senza approfondire.