Categorie: rubrica curatori

ALLONS ENFANT/10

di - 11 Marzo 2015
Il vecchio stagno
la rana salta
tonfo nell’acqua
Haiku di Matsuo BashĹŤ (1644-1694)
Reginald Horace Blyth, Haiku, Hokuseido Press, Tokyo 1967, p. 253
In cosa ti riconosci in questo brano?
«Gli Haiku nella loro semplicità riescono a trasmettere stati d’animo profondi, attimi di consapevolezza che evidenziano aspetti della vita quotidiana che spesso passano inosservati».
Vorrei che mi parlassi della tua formazione.
«Nelle varie fasi del mio percorso formativo ci sono stati diversi artisti che mi hanno segnato: negli   anni dell’Istituto d’Arte ho sviluppato un’ammirazione profonda per Brâncusi che è culminata in un mio recente viaggio in Romania dove mi sono recato in pellegrinaggio a Târgu Jiu, sua città natale dove, nel 1937, eresse la Colonna Infinita. All’Accademia di Belle Arti di Carrara spinto da un mio iniziale interesse per la scultura della pietra, ben presto è sorta in me la consapevolezza del rischio di rimanere intrappolato in una visione anacronistica dell’atto creativo ed un bisogno di sperimentare in altre direzioni. Ciò nonostante la costanza e la dedizione totale all’arte che si respira in quell’ambiente sono stati preziosi insegnamenti che hanno contribuito alla mia formazione. Durante il secondo anno assieme a due amici, Helena Hladilovà e James Harris, ho aperto GUM studio, uno spazio che usavamo come studio e soprattutto come luogo in cui invitare artisti della mia generazione i cui lavori ci interessavano. www.gumstudiomostre.blogspot.it/.  Col passare del tempo abbiamo conosciuto altre realtà (Cripta747 di Torino, L’A di Palermo, DNA di Venezia, Flip di Napoli, Bocs di Catania, Motel Lucie di Milano, Giuseppe Frau Gallery di Gonnesa) che nello stesso periodo, in varie zone d’Italia, stavano lavorando in modo simile a noi. Così in maniera quasi naturale e lentamente si sono creati scambi e amicizie. Ritengo per questi motivi il GUM come una delle principali esperienze di formazione per me, oltre naturalmente alle letture e ai viaggi».

In che modo intendi la tua pratica scultorea?
«Credo che la scultura in sé racchiuda ogni cosa: tutto è scultura. Ogni cosa nel nostro reale, sia essa un sasso o essere vivente, nel momento in cui è visibile agli altri diviene potenziale scultura. Vivere la propria esistenza consapevoli di ciò, cercando di esperire qualsiasi situazione in uno stato di continua presenza, tenendo sempre a mente l’obiettivo finale, in un continuo esercizio mentale. Mi interessano quelle idee che si manifestano in maniera pura, logiche soluzioni del nostro reale. Ogni mio lavoro è infatti il primo di un’ipotetica serie».
Con serie intendi non solo una formalizzazione processuale che si ripete, quanto piuttosto una modalitĂ  conoscitiva che opera per stratificazioni?
«Direi che mi interessa capire le dinamiche che si celano dietro ad un oggetto finito, poiché ciascuno è custode di una storia, cercando di risalire più indietro possibile, fino alle miniere da dove i materiali che lo compongono sono stati estratti. Ogni cosa è stata plasmata per divenire ciò che è, e continuerà ad essere modificata in futuro. Tutto è in un continuo stato di trasformazione; tutto il reale di per se è una scultura in costante metamorfosi, in un costante riallestimento di se stesso. Ho iniziato a provare gusto nel ripetere un’idea, è come se ogni volta ne scoprissi un lato nascosto che mi aiuta a capire in maniera più profonda l’idea stessa».
Mi puoi parlare pertanto dell’aspetto temporale e il valore che possiede nella formulazione dell’opera?
«Penso spesso al ruolo che l’attesa ricopre nel mio lavoro. Vivo l’atto di aspettare l’idea come parte integrante del progetto così che l’opera poi possa concretizzarsi velocemente e protrarsi nel tempo. Cerco le idee perché esse sono eterne riuscendo a sopravvivere alla propria rappresentazione fisica. Riuscire a creare connessioni tra il passato e il presente per indurre nel fruitore riflessioni sulla transitorietà della realtà fenomenica è per me estremamente importante».

Un modo per analizzare il presente e quasi fissarlo.
«Certo, attraverso l’analisi dei materiali di cui è composto ciò che ci circonda, testimoni di ciò che ci ha preceduto e parti integranti del futuro, cerco di comprendere il nostro presente.
In Bullet ho sfondato una lastra di acciaio con un meteorite: ho creato un incontro tra due oggetti composti dagli stessi elementi chimici, ma uno di provenienza terrestre e l’altro che ha vagato nello spazio siderale per milioni di anni. La traccia di questo incontro, dell’impatto, è la scena centrale del lavoro, ma è imbevuta da una nozione di tempo che l’essere umano non può in nessun modo né comprendere né concepire. Integrando la precedente domanda potrei rispondere dicendo che il tempo acquisisce un ruolo centrale nel mio lavoro in maniera centripeta, ossia viene attratto e convogliato dalle forze che questo mette in gioco».
Vorrei capire con te il ruolo di trasformazione, quasi di processo alchemico, che è sempre presente nei tuoi lavori.
«Mi interessa come ogni cosa si modifica quando vi entriamo in contatto, sono affascinato dalla fluidità della materia che nel divenire oggetto finito, attraversa vari stadi di metamorfosi. Indagare questi passaggi per capire la vera natura di un oggetto, ciò che si cela dietro la rappresentazione è spesso per me più importante della rappresentazione stessa che spesso retrocede in secondo piano. Creare i presupposti a volte è sufficiente a dare vita a un’opera che si trasforma nel corso del suo compimento in un qualcosa che non potevamo prevedere. Mi interessa perdere il controllo della situazione e divenire io stesso fruitore del mio lavoro, lasciando che esso agisca secondo la propria natura, dando vita a qualcosa di nuovo che già esiste. Ogni cosa è il risultato di una trasformazione, di un mutamento che a sua volta diventa causa di un altro effetto, anche la cosa che ci appare più immutabile, in realtà si muove, vive. Mi interessa partire dal processo prima ancora che dal materiale, come ad esempio in Volver, dove ho indagato il processo di dissolvimento, l’annullamento della forma del ghiaccio al contatto con la forma, all’apparenza solida, della salgemma, esplorando l’illusione del concetto di solidità della materia».
Nelle tue opere c’è sempre un dato sensoriale, quasi sensuale… che rapporto intrattieni con ciò che produci?
«Come ho già ribadito, vedo ogni mio lavoro come il primo di un’ ipotetica serie. Ho iniziato ad avere idee partendo da un’ idea madre che si dirama dando vita ad ulteriori idee. Con ogni mia opera intrattengo un rapporto unico, irripetibile, ciascuno è frutto di un attimo rivelatore che genera in me una sensazione di appagamento, ed è proprio questa sensazione che mi piacerebbe riuscire a trasmettere in chi fruisce un mio lavoro, cercando di ricreare quell’emozione pura di stupore che suscita un’esperienza nuova. La scelta di un colore, un materiale o di una forma è spesso il risultato di un’ idea cui segue una fase di coinvolgimento fisico con la materia, come in Group Show dove, nel tentativo di tornare alle mie radici animali, ho azzannato l’argilla. Addentando la materia, plasmo, ritornando attraverso una esperienza sensoriale alle mie origini».
Segnalami, se ci sono, degli autori che ritieni significativi per il tuo lavoro e il motivo per cui sono importanti per te.
«Vorrei citare tre autori: Juan Rulfo per la sua capacità di narrare vicende, effettuando continui salti temporali, dove vicende passate e presenti si alternano senza linearità, in cui tutto ciò che sta succedendo è già successo, un intreccio di vita e morte; il poeta T.S. Elliot di cui oltre ad amare la poesia mi interessa l’uso che fa, nelle sue opere, del concetto poetico di “correlativo oggettivo”, una serie di immagini, oggetti, trasposizione di significati concettuali astratti in un immagine oggettuale priva di dirette e logiche connessioni con essi, ma capace di suscitare emozioni che è un po’ quello che cerco di fare nel mio lavoro, e infine Rudyard Kipling che in Kim riesce a narrare una bellissima storia di avventure e di spionaggio dove il personaggio diventa una pedina del “Grande Gioco” inglese nell’India coloniale».

Namsal Siedlecki: Caro Andrea vorrei chiederti come evolverà, secondo te, il concetto di mostra nel futuro e se continuerà ad avere un ruolo così centrale nel modo di presentare e divulgare l’arte.
Andrea Bruciati: «Sinceramente non so come si evolverà ma di certo dovrà tenere conto delle innovazioni informatiche e tecnologiche che permeano il nostro modo di esperire in maniera mediata la realtà, e con questo intendo un approccio sia di ordine conoscitivo che sensoriale. Per cui le mostre avranno sempre una funzione, seppur oltremodo spettacolare, anche se personalmente mi auguro che si orientino in senso opposto, per una significazione alternativa del reale. Mi piace concepire una attività espositiva perché rimanga un’esperienza vivificante e differente, ricoprendo così la necessità di intendere criticamente le coordinate culturali e biografiche che ci connotano».
Namsal Siedlecki è nato a Greenfield (Massachusetts – USA) il 23 gennaio 1986. Vive e lavora a Seggiano (Grosseto)

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