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01
aprile 2015
ALLONS ENFANT/11
rubrica curatori
Undicesimo appuntamento con la rubrica dedicata ai giovani del panorama italiano. Risponde alle domande di Andrea Bruciati, Diego Cibelli
«Un risultato nuovo ha valore, se ne ha, nel caso in cui stabilendo un legame tra elementi noti da tempo, ma fino ad allora sparsi e in apparenza estranei gli uni agli altri, mette ordine, immediatamente, là dove sembrava regnare il disordine […] Inventare consiste proprio nel non costruire le combinazioni inutili e nel costruire unicamente quelle utili, che sono un’esigua minoranza. Inventare è discernere, è scegliere […] fra tutte le combinazioni che si potranno scegliere, le più feconde saranno quelle formate da elementi tratti da settori molto distanti. Non intendo dire che per inventare sia sufficiente mettere insieme oggetti quanto più possibile disparati: la maggior parte delle combinazioni che si formerebbero in tal modo sarebbero del tutto sterili. Ma alcune di queste, assai rare, sono le più feconde di tutte».
J. H. Poincaré, Scienza e Metodo, Einaudi, Torino 1997.
Perché questo brano?
«In estrema sintesi, Poincaré riflette sulla creatività come quella capacità di unire elementi preesistenti in combinazioni nuove e utili. Niente si crea dal nulla e gli elementi preesistenti sono necessari tanto quanto la competenza per unirli in nuove combinazioni, selezionando, fra quelli disponibili, quelli capaci di combinarsi insieme, creando nuova utilità e bellezza. Il matematico francese ci obbliga a dare il giusto peso a quattro elementi da non sottovalutare: la competenza, per riconoscere gli elementi da ricombinare; l’intuizione (se non anche l’istinto), che aiuta a scegliere la più funzionale fra varie opzioni possibili e le variabili in gioco; l’esperienza, intesa come un potenziamento dell’intuizione ed un affinamento dell’istinto ed, infine, la tenacia per procedere fra prove ed errori. Se dovessimo riassumere l’innovazione creativa, definita da Poincaré, potremmo utilizzare questa formula seguente: C = n*u dove la creatività (C) è il prodotto di una quantità di “nuovo” (n) e di una quantità di “utile” (u)».
Come mai questa attenzione alle scienze matematiche?
«Perché cerco la possibilità di comprendere in maniera unificata le diverse espressioni che vanno dal tangibile all’intangibile, dell’universo tanto vicino degli oggetti quotidiani quanto lontano della dimensione della materia».
Parlami della tua formazione.
«Su una linea temporale che va dal 2007 al 2011 ero inscritto all’accademia di Belle Arti di Napoli, dal 2012 al 2013 ho concluso i mie studi a Berlino, presso la Weißensee Kunsthochschule. Attualmente sono iscritto alla facoltà di Ingegneria e Ambiente di Aversa per frequentare un corso in Design per l’innovazione sostenibile. Un punto di riferimento per il mio percorso di studi e di ricerca è stata la Convenzione Europea del Paesaggio (CEP) emanata nel 2000 a Firenze. Essa mi ha trasmesso – più di ogni altra carriera artistica – le lenti con cui ingrandire i significati su cosa fosse per me “pratica performativa”. Nella CEP il paesaggio ha natura processuale e relazionale: esso infatti trae il suo senso non soltanto dagli elementi – naturali e umani – che lo compongono, ma anche dalle relazioni fra questi e, soprattutto, dal modo in cui le popolazioni percepiscono tali dinamiche, attribuendo al paesaggio significati e valori. La Convenzione, dunque, considera il paesaggio come un fenomeno né puramente oggettivo (come il territorio o l’ambiente), né puramente soggettivo (il famigerato paesaggio come stato d’animo), ma piuttosto che si costituiscono nell’interazione tra i due versanti. Attraverso questa lente che ho potuto definire i piani di studio delle istituzioni accademiche. Essa, mi ha mostrato non una singola istituzione del sapere ma diverse università con cui amplificare le mie intenzionalità. È come se mi esponessi ad un lungo processo di editing, cerco diverse risorse del sapere e con quali contesti fisici interpolare le mie intuizioni».
Quindi un’attenzione molto focalizzata su una certa idea di paesaggio antropologico.
«Il rapporto tra popolazioni e paesaggio non è soltanto oggetto della percezione degli uomini e sfondo della loro azioni, è una realtà viva che da tali azioni viene incessantemente modificato, assumendo perciò caratteristiche sempre diverse e sempre nuovi significati. In questa visione di pensiero, diversi autori del campo delle geografia umanistica hanno contribuito nel chiarirmi i principi e i valori della “performatività”. Esempio, il geografo Eugenio Turri propone una concezione del paesaggio in chiave semiologica, considerandolo cioè come un insieme di segni interpretabili alla luce di una determinata cultura. L’autore sostiene che col suo carico di segni umani ogni paesaggio sottintende un insieme di relazioni che legano l’uomo alla natura, all’ambiente, alla società in cui vive».
Con quale modalità si inserisce il tuo agire come artista?
«La mia formazione si sviluppa a partire dalla premessa etica e politica della ri-significazione della parola “arte” in quanto pratica culturale. Il termine cultura contiene in sé il significato etimologico di coltivare. In questo senso, i mie studi si propongono di approcciare all’arte, alla capacità di fare, di creare, come processo, come concertazione e cooperazione di pratiche identitarie, sociali, economiche, politiche, in una parola, culturali, recuperando un’immagine presa in prestito dal campo dell’agricoltura: la tecnica di coltivazione detta shifting cultivation, che in italiano è resa come coltivazione sinergica. Essa consiste nella cura nomade e disordinata di appezzamenti di terreno, in cui diverse colture lavorano insieme (sinergicamente, appunto), in consociazione. È, dunque, uno sguardo plurale quello che intendo rivolgere agli oggetti della mia ricerca, da una prospettiva che non faccia di questo sguardo uno strumento di assimilazione, ma che piuttosto riconosca (sostenendole e proponendone di nuove) le relazioni sistemiche tra più attori sociali.
In un’intervista del 1979, Italo Calvino dichiarava: «Il massimo del tempo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei». Durante la mia formazione ho sempre saputo cosa desiderare, quindi intuitivamente, ho ricercato quali identità – tramite le forme della loro cultura progettuale – potevano mostrarmi come rompere o agganciarmi al passato con tutto quello che offre il mio tempo, senza lasciare indietro niente».
Parli di innovazione sostenibile, una formula che potrebbe avere risvolti anche nell’ambito creativo.
«Se torniamo alla citazione di Poincaré sulla creatività e quindi sull’unire elementi preesistenti in combinazioni nuove e utili, è del tutto naturale aspettarsi che l’”Innovazione sostenibile” possa avere dei risvolti nell’ambito creativo, in quanto, diffonderebbe pratiche che mantengono vivo il desiderio per le diversità: oggi questione principale se si vuole evitare che la disattenzione del se con la consuetudine all’omologazione conducano ad uno stato di cittadini dimezzati. L’innovazione sostenibile può canalizzare le diversità in pratiche culturali».
In questo senso concepisci una identità fluttuante.
«La sostenibilità si registra fin quando gli individui – assieme alle pratiche culturali – interagiscono con l’ambiente stabilendo con e in esso le loro appartenenze multiple. L’identità secondo Maalouf non è data una volta per tutte: al momento della nascita, ad esempio, si stabilisce una prima appartenenza, religiosa, nazionale, etnica, razziale, linguistica, alla quale se ne aggiungono altre. Il percorso da cittadini dimezzati a liberi fa si che si aggiungono sempre altre appartenenze a quelle originali, che comportano la costruzione di identità complesse. L’Innovazione sostenibile ha un risvolto nell’ambito creativo quando incrementa la produttività di diversità. Diverse diversità – tramite le pratiche culturali – verrebbero assorbite in un ambiente per poi offrirsi come simboli e valori che guidano la costruzione identitaria degli individui».
Oltre a Calvino, chi sono i tuoi punti di riferimento?
«Il manifesto degli Archizoom Associati, dove si ipotizza un’avanguardia di architettura che “rinuncia alla forma della città futura”, sostenendo che in una civiltà basata sul consumo come valore emergente essa debba seguir parametri quantitativi e realizzare un tessuto compatto di servizi, privo di un’immagine globale. Un continuum omogeneo senza barriere dalla casa alla metropoli, incentrata su un rapporto multiplo diverso, dove è possibile transitare dall’una all’altra come in un sistema di coordinate complementari, senza introdurre variabili esterne. Esempio è No-Stop City, che è la rappresentazione dei luoghi emblematici del sistema industriale dei consumi e della produzione. La fabbrica e il supermarket sono le strutture urbane ottimali dove le funzioni produttive e le informazioni merceologiche si organizzano liberamente su un piano continuo. Altro esempio di modello di “urbanizzazione debole” è Agronica (che per me è lo spazio privilegiato di un’azione). Agronica è la naturale compenetrazione di tutte le funzioni metropolitane: dalla comunicazione telematica, agli scambi di merci, alle attività specializzate di produzione e ricerca, allo spettacolo, fino alla loro fusione con quelle estremamente sofisticate relative alla organizzazione e gestione del sistema agricolo. Agronica è la rappresentazione fluida e diffusa sul territorio di diverse forme di attività che si distribuiscono e si stabilizzano secondo il concetto di “simbiosi funzionale”: un’offerta che può rinnovare le relazioni esistenti per la gestione in termini sostenibili del patrimonio delle risorse naturali».
Diego Cibelli: «Nella riflessione che attui, chi hai guardato, sei rimasto influenzato, quali ricordi vorresti evidenziare?
Andrea Bruciati: «Forse non ho mai guardato ma osservato perché possiedo solo una memoria visiva. Forse sono rimasto influenzato da esperienze, anche se mi piace avvertire sensorialmente le cose e i fatti senza che vi sia tempo, come in un eterno e pericolosissimo presente. Tiziano, mi immagino sempre a Tiziano ultimamente, forse per la sua fede verso l’Arte che si fa Uomo».
Diego Cibelli è nato a Napoli il 17 giugno 1987. Vive e lavora a Napoli
cuscini, piantine, smartphone, letti matrimoniali, conchiglie, quest’arte concettuale ci ha davvero rotto il Kutzo.
A cosa si tende? barbetta e pantaloni hipster, cappellino alla lasciami stare, un po di attitudine snob (proprio quella che non ci vuole per chi vuol fare arte). Vorrei sapere se tutti questi genialoidi dello stivale con le suole bucate riescono a vendere un ‘ opera all’ anno, giusto per tenere alto il loro ego. Queste cianfrusaglie non le fanno piu’ nemmeno in UK, campioni della supercazzola culturale chiamata arte concettuale, l’ arte del niente che non e’ mai servita a niente. Enjoy the nothingness, sempre in tempo a trovarvi un lavoro piu’ stabile, provate all’ Alenia di Napoli, stanno assumendo nuovi facchini. Peace