…un’idea, un concetto, un’idea
finché resta un’idea è soltanto un’astrazione
se potessi mangiare un’idea
avrei fatto la mia rivoluzione
la mia rivoluzione, la mia rivoluzione…
Giorgio Gaber, Un’idea, dall’album Far finta di essere sani, 1973
Qual è la tua idea di astrazione?
«Credo che, ormai da tempo, non sia più corretto usare il termine “astrazione” inteso come non figurativo.
Quello che posso intendere come “astrazione” consiste più in un atteggiamento che tende alla decontestualizzazione, dove gli elementi vengono spostati, modificati o ai quali vengono aggiunte o sottratte delle parti che poi diventano i cardini della definizione del lavoro in causa».
E in che modo concepisci i due termini assieme: la rivoluzione associata all’astrazione ha un rimando storico ben preciso all’utopia?
«Il rimando all’utopia, secondo me, è solamente un effetto, causato dall’indifferenza che provo nei confronti di alcuni aggettivi; quello che intendo è proporre un oggetto, un qualcosa di palpabile, che sia uno stretto derivato della mia immaginazione, del mio pensare per immagini; tutto ciò può essere considerato come utopico finché resta immateriale, ma dal momento in cui diventa oggetto l’utopia non è più presente».
In che modo la tua produzione pittorica si connette con la tua ricerca? Ci sono campi paralleli o in che senso convergono?
«Nella mia pratica è sempre stato centrale il rapporto con la pittura, con il quadro; ci sono stati momenti in cui il “soggetto” non è stato questo, probabilmente ce ne saranno altri, e momenti in cui il dipingere diventa più centrale; ma l’attitudine con la quale affronto il lavoro è tendenzialmente la stessa. Non mi piacciono le definizioni, e vorrei per il mio lavoro la massima libertà di forma, la libertà di scelta del miglior modo per sviluppare e realizzare il progetto in causa. Non saprei dire se ci sono campi paralleli che uniscono la ricerca, solitamente non deriva da approfondimenti teorici, quello che credo faccia convergere i miei lavori l’uno con l’altro è, appunto, l’attitudine con la quale vengono pensati prima e realizzati poi».
Dalla performance alla pratica pittorica, sembrano mondi dicotomici. Puoi spiegarmi in che modalità le intendi e in quale accezioni sono intesi nella tua poetica.
«Dal mio punto di vista non è necessario che ogni lavoro, ogni progetto e ogni pensiero debba avere un legame più o meno stretto con i suoi vicini; ci sono casi in cui è possibile che esista un gruppo di lavoro con caratteristiche simili, ma ciò non è necessario, sono i lavori stessi che suggeriscono, che chiedono, altre soluzioni vicine. Ma se penso a un lavoro, la mia preoccupazione non è trovare o cercare un legame tra esso e la mia poetica, non sono neanche così sicuro di averne una. Ed è per questo che facilmente pittura, scultura e video convivono senza problemi».
Parlami della tua formazione in dettaglio.
«Prima degli ultimi anni in cui frequentavo l’Istituto d’arte di Urbino, dove ero iscritto alla classe di Fotografia, frequentavo la scuola più per divertimento che per altro. Finiti i 5 anni mi iscrissi all’Accademia di Urbino, a pittura, prima al triennio e poi al biennio specialistico, dove ho incontrato buoni insegnanti tra cui Luigi Carboni, Alfredo Pirri, Giovanna Salis, Ludovico Pratesi, Matteo Fato e Gabriele Arruzzo con i quali è nata anche un’amicizia oltre le mura dell’Accademia. Oggi considero concluso il mio ciclo di studi dopo la residenza che ho avuto, attraverso la Dena Foundation, a Parigi, terminata a gennaio».
Il portato di questa formazione nella tua riflessione attuale.
«Durante gli anni passati in accademia c’è stata una lunga serie di stimoli; qualsiasi cosa si riflette oggi, da una parola detta a un incontro, da un artista citato a una serata con gli amici o qualsiasi altra cosa, tutto ciò ha intaccato la mia sensibilità di studente, ed ora continua a riflettersi in maniera più o meno consapevole su di me e su quello che faccio».
I tuoi riferimenti sono visivi, musicali, letterari?
«Passo le mie giornate ascoltando Rai Radio3, che trasmette solo ottima musica alternata da programmi di grande interesse, in alternativa c’è il cantautorato italiano, il già citato Giorgio Gaber, Ivan Graziani, Lucio Dalla o altri, anche il Jazz classico non mi dispiace affatto. Le mie letture sono multiple, incostanti, indisciplinate e piuttosto casuali, non leggo romanzi, ma preferisco la saggistica, non posso fare nomi perché effettivamente non mi sento di essere legato a nessun autore in particolare. Con gli artisti è diverso ho una passione generale per gli artisti storicizzati, alcuni per gusto personale altri perché sono stati dei riferimenti per il lavoro, come Alberto Burri o Bruce Nauman, ora sono più caotico e non ho un vero e proprio riferimento, ma vedo cose, che più di altre, mi fanno ragionare sul mio lavoro, come per esempio le sculture con i vetri delle auto di Martin Soto Climent o il soffitto di burro di Calzolari, la mostra “The new” di Jeff Koons, Nessun concetto nessuna rappresentazione nessun significato di Francesco Gennari, la montagna spostata da Francis Alys, alcuni lavori di Rob Pruitt, le palle di neve di David Hammonds, Marcel Broodthaers e The Painter di Paul McCarthy».
L’idea di anarchia sembra essere continuamente ribadita. Da dove nasce e soprattutto cosa rappresenta per te, oltre ad un estremo bisogno di libertà?
«Non l’ho mai considerata anarchia ma caos, o meglio caoticità, che non è casualità. L’idea di caos che ho è rappresentabile attraverso l’immagine del granello di sabbia; per fare una montagna servono miliardi di granelli, ognuno di essi è fondamentale per la forma e per la struttura, e al variare di un solo granello la forma della montagna cambia. Questo mio pensare caotico non è una necessità, ma una condizione, dalla quale emergono i miei progetti, le mie idee. Ogni stimolo si accumula all’altro, e questo cumulo rappresenta il mio modo di pesare, di vedere (o vivere), le cose; ogni granello ha la forza di cambiare la montagna».
Domani?
«Non ho grandissime sfide da affrontare nell’immediato, ora son abbastanza concentrato nel portare a termine l’ultimo ciclo di lavori, il che non è mai cosi semplice. Quello che potrei chiamare sfida è la mia necessità di trovare il modo migliore per provare a realizzare qualcosa di più complesso, su ogni aspetto, da un punto di vista artigianale/ingegneristico allo spazio su cui inserirlo; si tratta di alcuni progetti per delle sculture di grandi dimensioni, che necessitano di mezzi un po’ più potenti di quelli a che ho a disposizione ora. Diciamo che questa è una sfida a lungo termine, per la quale non mi sono dato delle scadenze».
Davide Mancini Zanchi: Ciò che m’interesserebbe sapere da te è da cosa sarebbe composto il tuo museo ideale, come lo struttureresti e con quali criteri andresti a comporne la collezione.
Andrea Bruciati: «Non so se mi piacerebbe un museo, piuttosto preferirei una raccolta di oggetti che costituirebbero elementi di un organismo palpitante, in continua involuzione ed evoluzione. Mi piace pensare a qualcosa di vitale, che offra possibilità di esperienza. Senza pregiudizi o classificazioni di ordine cronologico, anzi le collezioni di antichità rinascimentale potrebbero essere un esempio da un punto di vista sensoriale. Certo il criterio qualitativo dovrà essere altissimo e in questo sarò sicuramente non alla moda e fuori dal tempo. Tu invece come lo concepiresti?».
DMZ: «Il mio sarebbe situato in una stanza abbastanza grande, lunga e alta, con un ottima illuminazione, forse una vetrata o una finestra, al suo interno però non metterei nulla, lascerei la stanza completamente vuota».
AB: Credi che non vi sia nulla da esporre?
DMZ: «No, sicuramente ci sarebbero tantissime cose da metterci dentro, ma uno spazio vuoto è molto suggestivo, potrebbe contenere tutto, ma non lo fa, la prima cosa che entrerebbe al suo interno romperebbe il silenzio che regna nello spazio, come una macchia di sugo in una tovaglia. La tovaglia ha la funzione di riparare il tavolo dalle macchie, per me è meglio mangiare in una tovaglia candida».
Davide Mancini Zanchi nasce ad Urbino il 26 giugno 1986. Vive e lavora a Fermignano (PU).