Categorie: rubrica curatori

ALLONS ENFANT/14

di - 8 Settembre 2015
«Che cosa ti piacerebbe sentir dire di questo film e che cosa non ti piacerebbe sentir dire?»
Fellini: «Non mi piacerebbe sentir dire che ho tentato di stupire, che voglio fare il moralista, che sono troppo autobiografico, che ho cercato nuove vie. Non mi piacerebbe sentir dire che il film è pessimista, disperato, satirico, grottesco. E nemmeno che è troppo lungo. La dolce vita, per me, è un film che lascia in letizia, con una gran voglia di nuovi propositi. Un film che dà coraggio, nel senso di saper guardare con occhi nuovi la realtà e non lasciarsi ingannare da miti, superstizioni, ignoranza, bassa cultura, sentimento. Vorrei che dicessero: è un film leale».
Tullio Kezich, Noi che abbiamo fatto la dolce vita, Sellerio, Palermo 2009
Cosa intendi per lealtĂ  e in che modi la riscontri nel tuo lavoro?
«La lealtà è sempre diretta a qualcosa, e nasce quasi sempre da un conflitto tra due parti. Rivolta alla propria essenza, è il confitto tra essere chi si è o non esserlo fino in fondo, e quindi farla morire. Un’opera può essere leale verso gli uomini cui si rivolge, o verso l’artista stesso, che vorrebbe garantirne il miglior successo e la migliore riuscita, ma alla fine deve esserlo – ed è questo che io intendo per lealtà – soprattutto con se stessa: è solo così facendo che lo sarà con chi l’ha creata e verso chi si rivolge. L’opera muore quando non arriva alle persone, ma il fine non deve essere il consenso».
Ingannevole. Tu operi soprattutto con la fotografia: dimmi qual è la tua interpretazione del medium.
«La suprema saggezza dell’immagine fotografica consiste nel dire: “Questa è la superficie. Pensa adesso – o meglio intuisci – che cosa c’è di là da essa”, scriveva Susan Sontag. La superficie è ciò che accoglie la specificità che si ruba al tempo. Per rispettarne il valore, però, bisogna che l’atto fotografico sia un atto magico, il risultato di una connessione veloce e profonda tra la propria anima e l’essenza di ciò che si ha di fronte. Questa energia labile e fugace, quando accade, ha la forza di farsi immagine, di “staccare” le cose dal tempo e di riempirle nel contempo, ed è allora che sento che l’immagine fotografica sta nascendo senza usare stratagemmi. Quello che faccio è cercare di creare le condizioni perché si possa verificare questa piccola scossa, che prima era dentro le cose, ma era muta».

Quindi che valore ha per te la superficie?
«Svelando la realtà la superficie fotografica mostra una possibilità nuova, un significato che era nascosto: è una sensazione rassicurante e un po’ paurosa. Certe volte ci sono persone, degli oggetti, che riconosco intorno a me: loro mi scelgono e io scelgo loro, come se sapessi che hanno qualcosa che mi appartiene, che si nasconde nella loro stessa superficie. Quando queste forze rimangono impresse nella pellicola, sento che questo valore emotivo arriverà forse ad altre persone, perché si è creata un’immagine viva, che ha una esistenza propria».
Parlami del valore emotivo dell’immagine
«L’immagine fotografica che cerco è fatta di una strana forma di nostalgia, che non riguarda la mia vita come la conosco, è fuori dai miei giorni, dalle mie abitudini. Piuttosto è una nostalgia per qualcosa che non è stato, è un ricordo non avvenuto che decido di creare e quindi è un futuro che potrebbe essere stato. Questo ricordo e questo mondo possibile è mio e altrui, personale e universale».

Lo scatto fotografico come testimonianza di una fine: Susan Sontag associava la fotografia alla morte
«Sono d’accordo, ma penso però che abbiano anche un potere opposto. Certe fotografie immobilizzano il soggetto, lo fanno morire, esperiscono una forma astratta di morte, ma ne estraggono anche la linfa vitale e la trattengono dentro di loro, e così facendo, acquisiscono il potere di infondere vita».
Ritieni che la fotografia sia il miglior mezzo per vivificare un’immagine?
«Per ora sì, anche se non escludo ci possano essere altri mezzi, che non saprei però gestire come voglio e che sento distanti. La fotografia mi appartiene come approccio alla vita, non riesco a stare in uno studio tutti i giorni, i miei pensieri nascono dal movimento e dall’imprevisto, all’aria aperta. Il video sta prendendo sempre più spazio, e non escludo che un giorno avrò voglia di sperimentare con la finzione pura, magari in un film vero e proprio».
Artisti o intellettuali da cui risulti affascinata?
«Mi piace pensarli per dualismi. Sia Cindy Sherman che Emilio Salgari cercano un “esotico” mediato dall’immaginazione, penso agli horror film stills pervasi da un senso di alterità fatti in studio o nelle vie sotto casa, e alle avventure dei corsari scritte senza mai uscire dall’Italia dello scrittore. Questo appartiene molto ai miei lavori, che si servono del presente più scontato, per distorcerlo verso una realtà che non esiste, che ha però qualcosa di probabile e possibile al suo interno. Poi Alex Katz e Jane Austen per i volti e le pose, sono di una borghesia che conosciamo bene, ma che con loro diventa misteriosa: anche io cerco questa desiderabilità. Le persone e i mondi che scelgo sono innalzati verso qualcosa di più alto. Dostojevskij e Francis Alÿs (almeno per Tornado, in cui l’artista si filma nel momento in cui cerca di entrare all’interno di un ciclone) lavorano con moti d’animo profondi, con sentimenti quasi primitivi, puri. Nei miei lavori cerco sempre di usarli come materia prima».

Come nasce una tua opera?
«Sempre dalla realtà, da momenti fugaci che raccolgo intorno a me. Ciò che cerco di fare in seguito è di non lasciar morire questa scintilla che mi si è presentata davanti, e riportarla in un altro spazio, in un altro momento, ricercandola e ricostruendola, tramite delle azioni, delle relazioni e delle condizioni visive».
In questa sorta di aura mitica, sembra che si possa parlare di costruzione di una immagine- icona?
«Pavel Florenskij in Le Porte Regali indica l’icona (nel senso proprio di icona sacra dipinta su tavola) come diretta erede culturale e storica della maschera rituale essendo in grado di elevare al massimo la sua funzione: quella di mostrare l’eterno riposo e di deificare lo spirito del defunto. Proprio nella sua qualità di veicolo, l’icona mostra una relazione con qualcosa che non è rappresentabile, ma che lo può essere solo se evocato nella sua dichiarata impossibilità di essere mostrato così com’è. La fotografia ha natura di segno misto (da un punto di vista semiotico) in quanto è icona ma anche indice (ovvero segni che si riferiscono all’oggetto tramite una modificazione da parte dello stesso, come le impronte, un segnavento o lo stampo di un bacio col rossetto). La fotografia si lega all’oggetto tramite un legame fisico: ovvero l’impressione della pellicola o dei sensori digitali e questo la rende per suo statuto difficilmente iconica. Ed è per questo che le fotografie post mortem di epoca vittoriana sono l’opposto delle tavolette di El-Fayyum, sebbene entrambe nascano dalla volontà di mantenere in vita la persona che non c’è più. Un esempio, per farti capire quello che intendo, sono le immagine delle epigrafi che si vedono per le strade da quando Photoshop ha preso il sopravvento nelle agenzie funebri. C’è questa nuova moda di scontornare il volto del defunto, e colorare lo sfondo con tinte piatte, solitamente un azzurro brillante o un bianco da carta d’identità. Come nelle icone bizantine si usava l’oro per avvicinarsi spiritualmente al soggetto dipinto negandone una collocazione terrena, o come nelle tavolette egizie si proponeva il ritratto frontale e senza espressione, così con i defunti si tende oggi a voler ricreare l’idea generale della persona, negando lo statuto di ricordo della fotografia che si è scelta. Questa pratica, a mio avviso, è fallimentare, perché, trattano la fotografia come se fosse un dipinto, ma a posteriori, si dimentica l’essenza incancellabile “di istante” della fotografia.. Se si vuole cercare un carattere iconico, in una fotografia, lo si deve fare a priori. Ed è quello che ho cercato di fare, ad esempio, con A hero’s life: il contesto in cui venivano mostrate le eroicità delle persone, erano degli uffici anonimi dell’azienda del Paese, che, come dell’ovatta attorno a un suono, si distaccavano dal momento glorioso che stavamo creando, andando a compiere una forma di corto circuito percettivo rispetto allo statuto immediato dell’immagine. Si è creata così una vibrazione di energie opposte all’interno della serie, che spingono ad una percezione iconica e spirituale dei soggetti».

La tua formazione?
A Venezia ho frequentato lo IUAV, e ho seguito, tra gli altri, i corsi di Giorgo Agamben, Angela Vettese, Guido Guidi, Alberto Garutti, Mario Airò e Adrian Paci. In seguito mi sono spostata a Parigi, dove per un anno ho frequentato all’École nationale supérieure des beaux-arts l’atelier di Annette Messager, che è stata una figura di riferimento, che mi ha spinta a seguire i miei ritmi e i miei tempi.
Ho vissuto a Roma nel 2009, anno in cui mi sono appassionata alla semiotica e, tornata a Venezia, ho frequentato il duo curatoriale Francesco Urbano Ragazzi. Trasferita a Zurigo, dove ho studiato fotografia presso lo ZHDK, ho partecipato ad un progetto di un anno di Arte Pubblica a Milano, organizzato dal museo di fotografia contemporanea, di cui Beat Streuli era il supervisor. Nel 2011 sono tornata a Venezia, dove sono stata in residenza alla fondazione Bevilacqua La Masa e da questo momento vivo con gruppo di pittori: avvicinarmi alla pittura e alla loro sensibilità è per me una nuova occasione di crescita emotiva e artistica.
Rachele Maistrello: Ne Le lezioni americane Calvino conferiva un titolo-parola che esprimeva un valore, parametro per orientarsi nella letteratura, tanto nel presente quanto nel nuovo millennio. Quali sarebbero i termini che sceglieresti tu, per l’arte?
Andrea Bruciati: «Leggerezza ed esattezza… cui aggiungerei passione».
Rachele Masitrello nasce a Vittorio Veneto (Tv) il 25 agosto 1986, vive e lavora a Venezia.

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