Categorie: rubrica curatori

ALLONS ENFANT/15

di - 28 Dicembre 2015
“Esiste una stanchezza dell’intelligenza astratta, che è la più spaventosa delle stanchezze. Non pesa come la stanchezza del corpo, né inquieta come la stanchezza della conoscenza emotiva. È un peso della coscienza del mondo, un non poter respirare con l’anima. Allora – come se il vento si abbattesse su di esse, come su delle nuvole – tutte le idee in cui abbiamo sentito la vita, tutte le ambizioni e i disegni su cui abbiamo fondato la speranza del nostro domani, si squarciano, si aprono, si allontanano, divenute ceneri di nebbia, stracci di ciò che non è stato ne avrebbe potuto essere”.
Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine, Feltrinelli, Milano 1986.
Come vivi la tua stanchezza, il tuo peso?
«Raccontando ciò che mi stanca e ciò che emoziona ancora. È una stanchezza sottile che mi fa oscillare tra l’entusiasmo e/o l’iperattività e il cinismo».
Qual è tuo percorso?
«Mi sono laureata in filosofia estetica e sociale all’università di Torino con la tesi Christopher Lash – come sopravvivere al capitalismo e ho successivamente ottenuto il M1 in Cinema e Filosofia all’Upjv d’Amiens. Ho poi frequentato nel 2010 il Master di documentarismo diretto da Daniele Segre, fondatore della Scuola i Cammelli, e da Marco Bellocchio e successivamente il Master Ied diretto da Alina Marazzi, documentarista. Il mio interesse per l’arte contemporanea e la sua relazione con il cinema, già presente durante gli studi di filosofia, è nato grazie ai progetti Situa.to e Alcotra sotto la direzione artistica del collettivo curatoriale a.titolo che, oltre ad essere state delle guide nel mio percorso di ricerca, mi hanno anche supportato nella produzione dei due ultimi film documentari Shores – In the Safe North Sun e La fabbrica è piena con le correlate video-installazioni che li accompagnano».

Perché il cinema?
«Il cinema è per me un medium popolare e di relazione che permette un lavoro di squadra, è un processo complesso che garantisce la somma di differenti fasi e stadi del lavoro creativo, è la sintesi dello spazio e dello tempo che il cineasta deve operare prendendo arbitrariamente posizione. È un medium che non appiattisce o semplifica l’esperienza umana materiale della creazione artistica, ma la restituisce in una calcolata sublimazione: è gratificante umanamente sia per l’artista che per il fruitore. Deleuze scriveva ne L’immagine-movimento e ne L’immagine-tempo, che mentre la filosofia antica si proponeva di pensare l’eterno, l’universale, il cinema diventa il portavoce dell’altra filosofia, capace di un modo di pensare nuovo che cerca il singolare, in ogni istante qualsiasi».
Altre letture che ritieni importanti per la tua personale visione?
«Le biografie di Truffaut e le lezioni di cinema e montaggio di Ėjzenštejn sicuramente. Del primo adoro due note interviste rilasciate e riportate dai suoi biografi in cui afferma: “Fare un film significa migliorare la vita, sistemarla a modo proprio, significa prolungare i giochi dell’infanzia, costruire un oggetto che è allo stesso tempo un giocattolo inedito e un vaso dove si disporranno, come se si trattasse di un mazzo di fiori, le idee che si hanno in questo momento o in modo permanente (…) Roberto Rossellini mi ha insegnato che il soggetto di un film è più importante dell’originalità dei titoli di testa, che una buona sceneggiatura deve stare in dodici pagine, che bisogna filmare i bambini con maggior rispetto di qualsiasi altra cosa, che la macchina da presa non ha più importanza di una forchetta e che bisogna potersi dire, prima di ogni ripresa: O faccio questo film o crepo”. Di Ėjzenštejn adoro la maniacalità con cui si è occupato della settima arte nascente e delle sue regole. I suoi manuali sono rigorosi come una teoria scientifica e hanno la voluttà di un’orazione politica. Nonostante il cinema avesse la necessità di una prima smaliziata e ingenua analisi approfondita concordo nel profondo con Tarkovskij che troppa struttura “toglie l’aria, elimina quella inespressa inafferrabilità che costituisce la caratteristica più affascinante dell’arte come tale”».

Trovi che la Cultura del narcisismo di Lasch sia una teoria ancora valida?
«La teoria del narcisismo di Lasch degli anni Ottanta è straordinariamente profetica. Ritengo che attribuisca il narcisismo secondario alla struttura societaria capitalistica. La profonda e maniacale cura di sé e della propria intimità e figura privata in contrapposizione ad una assenza di interesse per la res publica non viene raccontata dal filosofo e politico come una colpa ma come una inevitabile conseguenza dell’assenza di un orizzonte futuro e di un deserto sociale nel quale l’individuo necessità un appiglio. Il vuoto viene colmato dal narcisismo e dalla proiezione di un proprio sé perfetto in un panorama di proiezioni/ologrammi individuali».
In che modo se ne discosta il tuo lavoro?
«Cerco sempre di partire da una ricerca sul reale, il pubblico, ciò che ci interessa come individui posti in relazione. Non parto mai da una mia idea de-contestualizzata o intima, solo le motivazioni che mi spingono posso considerarle tali. I miei ultimi lavori poi hanno ancor più questo punto di partenza: da E con Nadia Pugliese sulla politica degli eventi e l’Expo, alla mia ultima installazione The last man on earth e Banks sulle questioni migratorie. Nel film che sto attualmente girando, dove il Banco di Pegni è il luogo di osservazione, considero il processo di creazione come parte del punto di arrivo del film e anche la sua vera anima. Spero di riuscire a fare di questo luogo metafora di una società basata sullo scontro eterno, ma più che mai attuale, tra debitore e creditore». www.cinemaitaliano.info/news/31559/le-ultime-cose-a-torino-le-riprese-del-film.html
Ti piacerebbe che le tue opere fossero “aperte”?
«Purtroppo al momento non posso ancora considerarle tali, anche se il desiderio che lo siano è fortissimo ed è anche questo che mi spinge a continuare il lavoro nell’ambito dell’arte contemporanea, non limitandomi solo alla creazione cinematografica. Ho iniziato a impostare un lavoro “aperto” sulla figura dell’imprenditore sul territorio di Alba: con l’aiuto di alcuni cioccolatai  sto creando una sorta di prodotto pilota, una marca di cioccolatini, lavorando sull’idea di Joseph Schumpeter dell’imprenditore come artista/creatore e sull’eredità di Ferrero sul territorio e la proiezione della stessa sui residenti. Il progetto, curato da Ilaria Bonacossa, verrà presentato ad Artissima nell’ambito di Localart e lo svilupperò nel corso del 2016. raccogliendo testimonianze ed impressioni».
Un plausibile esempio di come l’artista oggi possa svolgere una “funzione sociale”?
«“La creazione estetica va a mettere un piede nella porta”, scrive Felix Guattari. L’artista ha la libertà di un rivoluzionario, di un intellettuale, ha una funzione positiva nel senso etimologico che potrebbe dare Marcuse o Adorno, ovvero di creazione di un modo parallelo e alternativo, di una dimensione estetica libera da vincoli strutturali. Non dimentichiamo che resistere è creare, come scrive Miguel Benasayag. L’attività di creazione o riscoperta d’orizzonti impensati, di inconscio sepolto, di problematiche collettive insolute e lasciati irrisolte è il punto di partenza per un’artista/creatore; è una sorgente da cui attingere nella propria progettualità».

Parlami del tuo rapporto con a.titolo.
«Come curatrici sono state fondamentali per tutto il mio lavoro e sono legata a loro da grande stima e affetto. Mi hanno seguito fin dai miei primissimi passi e grazie ai loro percorsi di formazione e ricerca ho potuto produrre in maniera sempre più libera e personale. Sono inoltre produttrici di miei due documentari di creazione La fabbrica è piena e Banks in uscita in novembre per i festival italiani e a marzo per festival stranieri. Una delle loro linee guida fondamentali, basata sulla riflessione dello spazio pubblico inteso come complesso di relazioni nel quale l’arte può costituire un veicolo di azione culturale e politica, è diventata parte fondante del mio lavoro e una ricerca a cui continuo a tendere. L’arte come esito di processi di progettazione condivisa e quale strumento per la lettura e il ridisegno del territorio, è un concetto in cui credo fermamente».
In che modo si inserisce nella tua formazione, prettamente filosofica, il valore della costruzione di un’immagine?
«Sinceramente nonostante gli studi e le letture e il gusto per alcuni registi e artisti (Steve McQueen, Tacita Dean, Ingmar Bergman, Lucrecia Martel, Pablo Larrain) penso che il mio rapporto con l’immagine sia molto istintivo. Ho la sensazione di cercare con l’immagine che compongo una mia possibile visione armonica di quello che osservo».
Il tuo lato irrazionale quindi permea la tua visione?
«Assolutamente sì. Lo studio e la ricerca sono una conseguenza proprio del mio lato irrazionale e dell’inatteso. L’imprevisto d’altronde è una delle regole d’oro dell’arte che seguo e che in qualche modo cerco di imitare».
Irene Dionisio: Cosa desideri trovare nella creazione di un artista come uomo e come curatore?
Andrea Bruciati: «Desidero trovare una scintilla inattesa, una forza coinvolgente, un frammento di poesia che in fondo giustifichi a me stesso la dedizione a questo lavoro».
Irene Dionisio nasce a Torino il 22 ottobre 1986. Vive a Torino e lavora sempre nei luoghi dove la portano i suoi progetti.

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