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18
dicembre 2015
ALLONS ENFANT/17
rubrica curatori
Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata ai giovani artisti italiani. Sebastiano Sofia risponde ad Andrea Bruciati
“Dare un senso alla vita può condurre a follia,
ma una vita senza senso è la tortura
dell’inquietudine e del vano desiderio
è una barca che anela al mare eppure lo teme….”
Edgar Lee Master, Spoon River Anthology, New York, Macmillan & Co 1915 (Antologia di Spoon River, Torino, Einaudi 1993).
Qual’è la tua idea di desiderio e come pensi di tradurla?
«Riuscire ad addomesticare il mio istinto troppo spesso folle, ansioso e combattuto nella ricerca di questo senso; esplico questa idea giocando con la materia, il colore, la forma, consumandoli e facendomi consumare fino a che non arrivo a fine giornata sporco e sfinito».
Parlami del concetto di consunzione.
«Il mio approccio al lavoro è molto viscerale ed impulsivo: aggiungo, tolgo, manipolo, rompo, riparo, innesto colore e materia senza pensieri ma lasciando che il corpo agisca nello spazio e nell’opera che sto andando a “flagellare”. Ovviamente ci sono delle regole estetiche che cerco di seguire, anzi forse direi più delle limitazioni, cerco di ridurre al minimo la mia tavolozza nel momento iniziale del lavoro, andando poi a completarlo a mente fredda. Solitamente tengo i lavori sempre installati in studio continuo a guardarli e spiarli, giorno per giorno cerco di consumarli con lo sguardo e farmi consumare. Quello che sto imparando ultimamente è che a distanza di giorni il lavoro si svela e mi dice quello che voleva essere. Non so, è difficile per me ammettere che il mio lavoro sia diventato un esercizio psicologico, un mantra che butta fuori di me accumuli di vita».
Il tuo rapporto con il fare e l’atto scultoreo?
«Il mio fare è un non saper fare, non provengo da una formazione scultorea e il mio modo di approcciarmi alla materia è sempre vergine, imparo facendo e molto spesso ciò è tradizionalmente sbagliato, ma questo mi permette di divertirmi ed ingegnarmi».
La relazione con la materia e i materiali?
«Certe volte è un incontro casuale: ti capita per le mani quella cosa lì, altre volte invece è più scientifico: cerchi, ti informi, guardi tutorial su youtube e fai piccoli esperimenti. In entrambi i casi arriva poi però quel momento di affrontarli in modo più istintivo e completamente fisico».
Come e in base a quali caratteristiche li selezioni?
«Parto da un oggetto già esistente: deve essere qualcosa di usato e che porta con sé la traccia del suo vissuto. Cerco pertanto dei materiali che si possano legare ad esso o che ne possano prendere la traccia. Il fatto di poter manipolare subito e con attrezzi di fortuna il materiale è un altro parametro di selezione: sono una persona con poca pazienza, non sai quanto materiale ho sprecato solo perché non avevo voglia di aspettare che asciugasse con i giusti tempi!».
Ricerca di contrasti, materiali sintetici, mi puoi illustrare come procedi nel costituire l’opera?
«MI risulta difficile spiegarti come avvengano le scelte: è davvero un minestrone di casualità e curiosità oltre che di ciò che mi piace, di ciò che per me è bello, di quella cosa che mi attira a tal punto che devo toccarla e capirla. Posso dirti che sono affascinato dal colore, dalle stratificazioni, da ciò che è artificioso, dagli equilibri ottenuti per contrasti, dalla forma e da come quella forma invade lo spazio».
Che valore ha il colore e se il tuo sguardo può essere definito pittorico.
«Il materiale deve essere di colore neutro, poi solitamente sono io a pigmentarlo e colorarlo. Credo sia giusto definire il mio sguardo come pittorico, lavoro per velature e solitamente uso le cromie per creare fascinazioni e paesaggi».
Molti considerano il tuo lavoro non italiano. Che ne pensi e perché credi che lo definiscano così?
«Non so se il mio sguardo è italiano oppure no, credo non stia a me definirlo in tal senso. Forse risulta così per il mio non saper fare di cui ti parlavo poco prima. Sono cresciuto artisticamente in Italia affascinandomi e studiando solo praticamente italiani: penso a Diego Perrone, Christian Frosi, Patrick Tuttofuoco, Luciano Fabro. Questo non saper fare mi permette un atteggiamento molto libero e sperimentale, e forse il mio lavorare rispecchia l’amore di uno straniero per l’arte italiana in tutta la sua storia».
Hai degli autori che stimi in maniera particolare?
«Non c’è un autore particolare e nemmeno un’opera che stimo in modo assoluto, cambia spesso in base alla ricerca o alla materia che sto affrontando al momento. Ultimamente sto guardando il lavoro di Luciano Fabro e devo ammettere che lo trovo a dir poco incredibile! Mi affascina l’accostamento di colori e materia, come per esempio nell’opera Clotheshanger of the North. Io sono per il bello, per l’estetica, la forma e la sostanza. Non rifletto troppo quando guardo un lavoro e le cose in generale. Mi piace, mi dà emozione e quasi mi ingelosisco perché non l’ho fatta io, ma allo stesso tempo sono eccitato per il dovermici confrontare. Questo mi basta nel giudicare un opera. La mia percezione dell’arte ed in particolare dell’opera che vado a fruire agisce per canali corporali, emozionali. Credo che l’arte oggi abbia bisogno di sensualità e di forma; che non sia solo concetto, anzi oserei quasi dire che il concetto sia sopravvalutato. L’opera è ciò che vediamo e quel vedere crea senso senza agire sul pensiero ma bensì nella pancia, sul corpo dello spettatore, così come una erezione incontrollata. Questa è la mia visione e so che molti dei miei colleghi non condividono».
Che senso ha il dato formale di un lavoro?
«Secondo me il valore formale in un opera è tutto, guardo le cose come un bambino privo di pregiudizi razionali e intellettuali. Quindi la forma evoca, ed è, il senso dell’opera. Con questo principio affronto anche il mio lavoro: la forma crea il senso e quindi in un secondo momento il concetto».
Ritrovo nella tua poetica una componente sensoriale, quasi sensuale.
«Anche sessuale. La materia è carne, pelle, vibra e freme sotto le mie mani, risponde come una amante che voglio cercare di soddisfare abbattendo, ma anche assecondando, la sua resistenza verso la mia volontà di dargli la (sua) forma. Quindi sì, il mio approccio al lavoro agisce tramite il corpo, con il corpo della materia».
Quindi la produzione plastica può essere definita organica?
«Orgasmica! Assolutamente sì, organico anche inteso come trasformazione, ibridazione di qualcosa che muta. Alla base della mia ricerca c’è proprio questo pensiero di ibridazione sia come sguardo al mondo (una lettura molto importante per me è stata: Manifesto del terzo paesaggio di Gilles Clément) sia verso il mio approccio nell’opera: cerco, in particolare nell’ultima serie di lavori, di innestare quasi chirurgicamente il media pittorico in quello scultoreo, oppure rendere abito una scultura in una performance e così via. Rendere l’opera transessuale mantenendo alcuni connotati originali ma che nello stesso tempo creano un terzo elemento che sprigiona vita propria. Della serie:” 1+1=3″».
Transessuale: spiegami più compiutamente cosa intendi.
«Il/la transessuale ferma il presente, è una metamorfosi congelata nell’adesso. Il mio interesse verso il trans sta nella possibilità di fermare nelle mie opere l’hic et nunc, l’effimero, che è poi la Bellezza del momento. Se il passato è già scritto ed il futuro inconsistente, il presente ci scivola sempre tra le dita senza darci la possibilità di guardarlo; ciò che è trans invece lo permette. La dimensione che apre la transessualità è una sintesi altra, aliena, terza e che occupa uno spazio ulteriore».
D’altronde anche nel tuo nome e cognome c’è questa duplice natura, quasi fosse per te una naturalità delle cose.
«Sinceramente sei la prima persona che mi fa notare questa cosa rapportata alla mia ricerca ed anch’io non ci avevo mai pensato e il non averci mai pensato sottolinea, forse, la naturalità di questa condizione, che forse ha preso pieno possesso di tutto ciò che sono? Ci inizierò a ragionare. Capita spesso che alcune persone invertano il mio nome per cognome e non ti nego che questa cosa mi diverte sempre molto, quando mi firmo tendo a sottolineare più il cognome (Sofia) perché mi piace creare questo senso di ambiguità».
Il fattore temporale che ruolo ha nei tuoi dispositivi “scultorei”?
«Cercando di fermare un processo di metamorfosi è mia intenzione che quel dato processo viva in eterno e quindi anche nel futuro; cioè rappresentando uno stato presente che fa parte di quella cultura visiva, e che insieme sia il suo superamento».
Formazione: chi hai incontrato o con chi hai intessuto rapporti?
«La mia formazione è stata ed è una formazione sul campo. Dopo il liceo ho passato un paio di anni nel “mondo reale” e ho perfino fatto l’agente immobiliare per un po’ di mesi. Deciso di voler fare il LAVORO dell’artista ho frequentato la Naba di Milano per tre anni senza poter però conseguire la laurea: diciamo che il mondo mi ha remato contro per un po’. Ma, rimanendo sempre ben saldo alla mia idea di voler fare il LAVORO dell’artista, ho affiancato Luca Trevisani come suo assistente per un po’ di tempo: esperienza molto importante sia per quanto riguarda la crescita artistica ma specialmente per aver visto cosa vuol dire essere un artista e l’immensità di lavoro che c’è e che si deve fare. Fondamentali sono state anche le residenze: la prima in Viafarini mi ha dato l’opportunità di lavorare con altri giovani artisti condividendo oltre lo spazio e le maestranze anche le volontà i desideri ed i sacrifici; cosa che sta succedendo anche ora alla Fondazione Bevilacqua La Masa, il gestire uno studio visit e ricevere consigli e suggestioni dalle persone che passano dagli studi. Credo che per un artista la formazione sia in costante progredire ed infinita».
Le letture di Sebastiano?
«Non sono un amante dei romanzi, sono più per la saggistica: letture che mi sono state consigliate da persone più sagge in vari momenti della mia vita. L’occhio e lo spirito di Merleau Ponty perché parla dell’atto della visione come un prendere parte, un essere coinvolto nel ciò che si guarda; Lettere a un giovane poeta di Rilke parla della condizione dell’essere e fare l’artista, riflessioni sulla natura della vocazione, le esigenze che l’arte richiede: è stato per me molto importante in un momento di dubbi e paure, perché mi sentivo solo. L’evoluzione creatrice di Bergson approfondisce parte del pensiero riguardo il mio lavoro, specialmente quando parla di istinto ed intelligenza. Per finire La fenomenologia dello spirito di Hegel, che è un testo che continuo a leggere e rileggere a pezzi perché mi viene molto difficile affrontarlo e tendo a prenderlo più con l’istinto che con la ragione. Sicuramente avverti il tentativo di dire, il formarsi della coscienza attraverso le contraddizioni ed il calvario che la coscienza deve attraversare per arrivare al sapere. Tutte letture che hanno a che fare con l’istinto, la ragione, lo scontro che si crea e che è l’inevitabile matrimonio per creare… oserei dire un terzo».
Le ultime mostre di particolare interesse?
«Proportio a Palazzo Fortuny di Venezia, una fusione tra quel bellissimo spazio, gli arredi i colori, il modo in cui la luce entra e le opere in esposizione. Ho davvero respirato un profumo di storia ed architettura che ha creato in me uno stato d’animo di elegante e silenziosa pace. Come già detto mi lascio trasportare a livello emozionale nel vedere e vivere un opera, credo che tutta la mostra si possa considerare come un’unica opera che racchiude al suo interno tutto il resto. Rinascimento di Adriàn Villar Rojas alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, e il perché è abbastanza ovvio: trovo il suo lavoro molto vicino al mio, sia nel gesto dell’agire che in alcuni gusti estetici».
Sebastiano Sofia: Qual è il regalo più bello che hai ricevuto per Natale?
Andrea Bruciati: «Non me lo ricordo. Purtroppo ho difficoltà nel gestire la sorpresa legata ad un regalo per cui mi rammento le persone, ma non gli oggetti correlati. Sono fondamentalmente un feticista e pur essendo molto interessato all’oggetto, ho terrore per la sorpresa. Di solito sono io che suggerisco i regali e questo fa sì che non ne riceva più».
Sebastiano Sofia nasce a Verona il 19 settembre 1986. Vive e lavora tra Venezia e Milano