Di queste forme si suppone che siano trasmesse dalla tradizione, così che se oggi parliamo ancora di “atomi”, è perché abbiamo sentito parlare direttamente o indirettamente della teoria atomistica di Democrito. Ma dove ha attinto la nozione di atomi Democrito stesso o chi per primo ha teorizzato l’esistenza di tali piccolissimi elementi costitutivi? Questa nozione ha avuto origine nelle cosiddette idee archetipiche, nelle immagini primordiali cioè, che non sono mai riproduzioni di eventi fisici, bensì prodotti originali del fattore psichico. Nonostante la tendenza materialistica a concepire ‘l’anima’, la psiche, essenzialmente come mera imitazione dei processi fisici e chimici, non esiste ancora una sola prova in favore di quest’ipotesi. Al contrario, innumerevoli fatti dimostrano che la psiche traduce il processo fisico in sequenze di immagini le quali conservano spesso un legame appena riconoscibile col processo oggettivo. L’ipotesi materialistica è troppo audace e oltrepassa con presunzione ‘metafisica’ l’ambito dell’esperienza.
Carl Gustav Jung, Archetipi e Inconscio collettivo, a cura di Lisa Baruffi e con una premessa di Luigi Auriemma, Bollati Boringhieri, Torino 1980
Scelgo una composizione di Eliane Radigue, che si chiama Kailasha. Il brano si ispira ad un virtuale pellegrinaggio alla montagna sacra che porta questo nome. La compositrice è una pioniera della musica elettronica, che utilizza attraverso dei sintetizzatori, i cosiddetti bordoni, identificati con il nome inglese drone, per intenderci simili alle sonorità di La Monte Young
Spiegami in cosa consiste per te l’archetipo.
«La mia ricerca è volta ad attivare un pensiero verso idee, intuizioni e immagini primordiali, estranee alla riconoscibilità temporale, cercando inoltre dei riferimenti agli albori della cultura dell’uomo. È da questo ragionamento che scaturisce la mia percezione dell’esperienza visiva. Traducendo poi il processo fisico e chimico in immagini, sperimento i “sistemi della natura”».
Un dato “naturale”, cosa intendi?
«Sono cresciuto in mezzo alla natura. Essendo nato su un’isola, ho un rapporto con il mare molto particolare, l’acqua e il sale sono sempre stati degli elementi fondanti. Per tanti anni ho percorso una strada dove da un lato vedevo il mare e dall’altro le saline. Con il tempo poi ho desiderato ‘indagare’ di più la montagna. Studiando, ho capito che tutto quello di cui facciamo parte è natura, che ogni cosa, ogni oggetto è fatto di materia, grazie alla quale ogni elemento costitutivo si forma e appare. Qualsiasi cosa può essere considerata come una scultura. Il mio interesse consiste nell’avvicinarmi agli elementi costitutivi della rappresentazione e della materia, alla sua parte percettiva più ‘sottile’ e allo stesso tempo alla sua forza concretamente visiva e perciò più maggiormente legata alla sfera psichica. Le antiche civiltà che hanno scolpito geometricamente i monoliti, non hanno avuto modelli di riferimento e tutte quelle forme da loro create sono il cardine di quell’immaginario visivo su cui si basa gran parte della mia ricerca».
Puoi approfondire quel collegamento con La Monte Young?
«Durante la mia residenza in Islanda, per qualche mese ho ascoltato frequentemente una compositrice francese, Eliane Radigue. In particolare un brano, Kailasha, che si ispira ad un virtuale pellegrinaggio verso la montagna sacra Kailasha, appartenente alla catena montuosa dell’Himalaya. La compositrice è una pioniera della musica elettronica, tra i primi a sperimentare i bordoni, più conosciuti con il nome inglese drone [l’effetto armonico o monofonico di accompagnamento in cui una nota o un accordo n.d.r.] sono suonati in modo continuo per buona parte o per l’intera composizione. Le sue sonorità sono spazi percettivi, in cui la “fisicità” del suono si mescola ad una percezione psichica, quasi mantrica, determinata da una vibrazione di onde basse, considerabili come una sorta di scomposizioni di atomi. La non linearità vibrazionale che caratterizza quelle composizioni rimanda ad alcune teorie sulla fisica quantistica e alla sua applicazione sulla materia. Nella mia pratica di lavoro cerco di attuare un ragionamento simile, sintetizzando determinati input e teorie nella scultura, attraverso un processo mutevole e non lineare, caratterizzato da una continua fluidità».
Il tuo percorso?
«Nella mia formazione vanno annoverate principalmente le esperienze visive quotidiane. Questa acquisizione di informazioni mi ha permesso di costituire un apparato mentale strutturale, ancor prima di imbattermi in quello che ho riconosciuto in seguito come arte. Dai minerali e i bronzetti nuragici che vedevo per casa, agli input esterni degli elementi naturali che mi circondavano: queste sono state le basi su cui inserire il percorso formativo, che ho svolto prima al Liceo Artistico della mia città, poi all’Accademia di Belle Arti di Roma, di cui un anno passato all’Escola Massana di Barcellona. Finita l’università, ho deciso di rimanere a Roma, dove ho cominciato a muovermi e a comprendere la realtà dell’arte, ho trovato quindi uno studio al Pastificio Cerere a San Lorenzo, dove ho avuto l’opportunità di entrare in dialogo con altri artisti. Nelle stratificazioni di questa città ho trovato un terreno fertile per i miei ragionamenti, che si fondono con quelli sulle mie origini e sugli studi della conoscenza: dall’alchimia alla chimica, dalla filosofia alla fisica, continuo a informarmi per comprendere di più sulla materia, sui suoi mutamenti, trasformandosi come si trasformano le teorie e i pensieri ad essa correlati. Attraverso esperimenti, test e simulazioni, compio esperienze a tal riguardo, connettendole all’idea di immagine che rappresenta nella mia ricerca. Di recente mi sono spostato in un altro studio, dove posso proseguire la mia formazione quotidiana e rendere in scultura, bloccando quindi irreversibilmente nel tempo, le idee che invece sono sempre in divenire; in questo modo la scultura stessa è soggetta ad avere innumerevoli possibilità di forma e contenuto».
Come intendi la pratica scultorea?
«Il solo atto di porre la materia nello spazio, consente di poter parlare di pratica scultorea. In ogni lavoro, in cui utilizzo questo tipo di processualità, questa viene parzialmente modificata, pur mantenendo la sua struttura base, generando così una perpetua evoluzione del processo originario. Quello che ricerco è l’atto semplice, il gesto di togliere o aggiungere, e l’idea che in questa sia già insita l’immagine, che risulta come un’apparizione, né aspettata né controllata totalmente. In questo periodo sto lavorando ad una nuova idea di pratica scultorea, con l’intenzione di ribaltarne la percezione trasferendola sul quadro. Quando lavoro a delle sculture, utilizzo delle basi, dei supporti bidimensionali su cui lo scarto, il materiale in eccesso, si deposita: questi supporti diventano le opere stesse, lavorate con una manualità scultorea, plasmando quello che diventerà un quadro, trasferendosi dal piano orizzontale a quello verticale. Successivamente in alcuni di questi lavori questi piani verranno invertiti alterati in altre varie declinazioni compositive. L’idea è di ridare nuove forme al vuoto, prendendo in considerazione un nuovo concetto di sottrazione».
Il concetto di vibrazione e di frequenza invece?
«Credo che si possa descrivere questo concetto come una “vibrazione psichica” basata sul rapporto tra il tempo e la sua scansione percepita nello spazio. Basterebbe leggere il tempo come un flusso circolare o meglio ancora, orbitale, in cui le idee vengono scandite in vibrazioni ritmiche: secondo questa teoria, le idee sono come frammenti di vibrazioni che non si compongono mai in un’unica idea, se non quando ci si relaziona in maniera più diretta a precisi archetipi, di cui parlavamo all’inizio. Per questo motivo il mio lavoro si svolge in una duplice metodologia, tra il continuum e l’immutabile, in cui questa vibrazione scandisce le frequenze delle immagini, attraverso la percezione e la rielaborazione del visibile».
Sono d’accordo nel conferire alla scultura un dato di esperienza fisica: una risposta al virtuale. Trovi che in questa peculiarità sussista l’attualità del medium?
«L’opera scultorea sarà sempre un’azione contemporanea fintanto che le dimensioni spaziali saranno riconosciute come tre, oltre quella temporale. Potrebbe cambiare nel momento in cui le teorie delle multi dimensioni si potranno applicare alla materia. Tuttavia, credo che il mondo reale, sempre più in simbiosi con il fenomeno della virtualità dei sistemi tecnologici e alle relative conseguenze che questo legame comporta, non potranno mai davvero influire su un sistema di rappresentazione così primordiale come la scultura. Decodificare il reale attraverso un linguaggio odierno e l’esperienza della cultura precedente, traduce nel modo più adeguato la mia visione».
Esiste un rapporto cogente con una tradizione?
«Le tradizioni si basano sullo stretto legame tra il contesto sociologico e il territorio. La mia terra d’origine ne è un esempio, in cui è proprio la definizione geografica dell’isola a essere l’elemento imprescindibile su cui si basa la sua forte identità culturale. Gli antichi rituali, le vecchie usanze ancora oggi presenti negli usi e costumi dei suoi abitanti, e l’antica civiltà nuragica con le sue sorprendenti costruzioni in pietra, sono alcuni degli elementi che hanno inciso e incidono tutt’ora sul mio percorso. Non ho un legame con una tradizione in particolare, il mio punto di riferimento è l’insieme delle tradizioni sarde che da sempre si sono intrecciate alle tante altre focalizzate soprattutto nel bacino del mediterraneo: su queste radici si basa la mia identità personale, che bilancia e concretizza la fragilità di una abusata esterofilia o esotismo. Di queste tradizioni mi interessa comprenderne ogni aspetto, e uno di quelli che mi affascina di più è la dedizione totale e la maestria sorprendente di alcuni artigiani radicati nel proprio territorio. Salvaguardando la tradizione di pratiche antiche con un impegno costante, si astraggono dalla percezione comune del tempo».
Parlami della sensibilità pittorica nel tuo intervenire sulla materia.
«Esiste poiché all’interno della materia è già presente una qualità pittorica. Le venature dei marmi nelle chiese, e il travertino che ricopre Roma ne costituiscono a mio avviso un esempio lampante. Nei miei ultimi lavori l’intervento consiste nello stuccare le corrosioni naturali del travertino con altrettanti materiali naturali, come il cioccolato, spesso mescolato al pigmento, esaltando pittoricamente il marmo e il suo paesaggio, che altrimenti risulterebbe mimetizzato nella sua unica dimensione scultorea».
Alessandro Vizzini: Dato che questa rubrica è dedicata al panorama dei giovani dell’arte italiana. Vorrei sapere cosa pensi dello stato attuale del lavoro dei giovani artisti italiani e come lo vedi proiettato nel futuro prossimo?
Andrea Bruciati: «Non vorrei generalizzare sull’intera generazione… Il futuro è sempre una sfida ma vi sono opportunità che fino ad un decennio fa sembravano marziane. Sono convinto che, presa consapevolezza del proprio ruolo, gli artisti debbano scegliere con cura i professionisti e i compagni di strada non solo per strategie opportunistiche (che anche in tempi non recenti hanno generato situazioni fallimentari) o per affezioni emotive (vedasi i fin troppi cartelli pseudo alternativi fra tanti gruppetti di autori) al fine di costruire un percorso coerente e avere la possibilità di ribadire una ricerca con continuità».
Alessandro Vizzini nasce il 1 Luglio 1985 a Cagliari. Vive e lavora a Roma.