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29
marzo 2016
ALLONS ENFANT/20
rubrica curatori
Essere giovani artisti a Venezia. Sulltane Tusha nell'intervista di Andrea Bruciati. Proponendo la sua domanda finale
“I ricordi si appiccicano al petto, alla schiena, a tutta la pelle, e formano pian piano una crosta invisibile che separa dal mondo”
Alejandro Jodorowsky, Quando Teresa si arrabbiò con Dio, traduzione di Gianni Guadalupi, Feltrinelli, Milano 2013
“[…] sapevo che il bene e il male sono una questione d’abitudine, che il temporaneo si prolunga, che le cose esterne penetrano all’interno, e che la maschera, a lungo andare, diventa il volto’’
Marguerite Yourcenar, Le Memorie di Adriano. Seguite da Taccuini di appunti, traduzione di Lidia Storoni Mazzolani, Einaudi, Torino 2005
Quest’ultimo è un brano che mi accompagna da tanti anni; è stata la mia professoressa di italiano al liceo a farmelo amare. Mi ha spinto verso un’osservazione molto intima di quello che mi circonda, provocando in me la necessità naturale di un legame tra la mia poetica e le radici più profonde che riguardano la mia memoria e la famiglia, nonni, zii, insegnanti. Infinite rappresentazioni ed infinite maschere, ciascuna di esse con la pretesa di essere rappresentata in una forma insolita. Forse è per questo che nella mia pittura si sviluppano linee tanto differenti pur originandosi dalle stesse radici, perché ogni realtà pretende il suo spazio.
Le radici, i ricordi, vi è un lato emotivo ed affettivo molto forte…
«Dopo tante riflessioni ed esperienze gli aspetti più emotivi diventano secondari, o almeno ci si illude di renderli tali. Forse perché il pensiero consapevole, il gesto concepito come intervento pittorico sulla tela, sono direttamente collegati ad un processo mentale. L’ultimo passaggio, ovvero la riflessione sui presupposti reconditi, sui sentimenti, sembra marginale quando ci si confronta con la tela, ma acquista una nuova importanza a lavoro finito. Sono nata e cresciuta in Albania, a Shijak per l’esattezza. Luogo in cui le tradizioni e i legami con le persone, ancor più della religione, sono la base del vivere in comune. Il ricordo di quei luoghi vicino al mare e il rapporto con le persone, nonostante siano adesso così lontani, è ancora molto forte. Sebbene le mie ricerche siano sempre più vaste e sempre più frastagliati e distanti i miei riferimenti, il mio pensiero torna costantemente a ciò che ho vissuto. Per farti un esempio il ciclo di dipinti – molto grandi o molto piccoli – che ho sviluppato nel corso dell’estate presso il laboratorio aperto dell’atelier f a Forte Marghera trae origine da un complesso di riferimenti figurali e di immagini legate a spunti iconografici disparati, anche connesse alla storia della pittura o – se posso dire così delle “arti minori”. Vedute paesaggistiche, strutture vegetali, monili, costellazioni. Una moltitudine di figurazioni, una miriade di informazioni raccolte e strutturate intorno ad un pensiero di evoluzione formale del mio linguaggio pittorico. In seguito, come ti dicevo, una volta realizzato il quadro, ne ripercorro il contenuto, ma con uno sguardo diverso, più aperto e sincero nel recepire l’emozione scaturita dalle radici autentiche di ciò che viene narrato dalle immagini stesse. Questa lettura diventa più obiettiva al contempo nel ritrovare e rivelare i colori, le sensazioni e le movenze dei ricordi della mia storia personale».
La tela come taccuino?
«Assolutamente. È un impulso continuo di masse, di strutture. E anche di grossolanità, errori, esitazioni, incrinazioni, degradazione, di felicità e di “capolavori”. Un caos totale al quale non posso fare a meno di affezionarmi».
Illustrami il concetto di caos da riordinare: come procedi e quali azioni compi nell’elaborazione di un dipinto?
«Raramente inizio una tela senza aver prima fatto degli studi. Mentre disegni, le cose esterne penetrano all’interno e inaspettatamente evolvono in una scoperta. Diciamo che inizialmente ci si trova a fronteggiare il caos, difficile scegliere cosa raccontare e perché. Poi principia il fragore, per così dire, della lotta tra idea e materia, dove il potere del pensiero raggiunge l’ossessione ma senza oltrepassarne i limiti, e la materia, inevitabilmente, fisicamente, imprime i miei pensieri sulla carta. Credo che nel disegno vi sia una sorta di principio unico, privo di paure e aspettative e fonte inesauribile di possibilità. Dopo essere impazziti per ore ed ore nel cercare di rappresentare delle idee disegnando le linee essenziali, per individuare un percorso da seguire, ogni cosa torna ad essere confusa, apparentemente incontrollabile e priva di logica. In sostanza: non si sfugge mai alla sensazione di dover ancora riordinare qualcosa, sia nella testa che nel quadro».
Spiegami cosa rappresenta la pratica pittorica?
«Raffigura la trasformazione in immagini delle sensazioni, del desiderio, del silenzio totale e dell’ansia, ma si identifica anche in una scoperta continua. È anche, in questo senso, una cosa da pazzi. Vorrei spiegarmi: è un processo che rappresenta la perpetua applicazione di un metodo, che deve essere realizzato con dedizione e compenetrazione assoluta, perché il significato delle cose che facciamo risiede anche nel rigore con cui si organizza il lavoro. Essenzialmente la pratica della pittura coincide con i contenuti della pittura medesima: il metodo, e cioè l’articolazione ordinata delle procedure, determina la natura del linguaggio pittorico. Eppure, in modo apparentemente contraddittorio, il processo attraverso il quale si realizza l’immagine pittorica conduce inevitabilmente a riscoprire procedure inedite, che rendono l’agire pittorico un percorso costellato di sorprese e di eventi inediti, assolutamente imprevedibili e inaspettati».
Pertanto la tua ossessione…
«Mentre dipingo si crea una sorta di contenuto immateriale rappresentato mediante la figura che, tuttavia, non domina l’opera. La forma invece sì. Essa che è per me l’anima del lavoro, cattura l’esterno dell’esistenza e irrazionalmente, la trasfigura in immagine. È questo che mi ossessiona nella pittura, rendere percepibile la natura intangibile delle cose. Come tentavo di spiegare, ciò si concretizza nella scoperta che le nostre idee corrispondono a qualcosa che deve ancora prendere forma, in modo assolutamente coerente, ma in un modo completamente nuovo».
Come concepisci il ruolo del colore e del disegno?
«Prima di addormentarsi, si attraversa un confine come il torpore o il dormiveglia: un passaggio interessante in cui sei sveglio e puoi pensare, anche se sarà un pensiero indefinibile. Quando immagino il colore non posso fare a meno di abbandonarmi lentamente a quel lungo torpore. Un momento misterioso, dove finalmente mi libero della condizione vigile e presente e mi approprio dell’incertezza, di ciò che ho realmente appreso, di quello che mi condiziona e mi frena. In pratica è un momento, una condizione, in cui avverto il peso o la levità del colore. Percepisco come atto di libertà, e non più come arbitrio, la scelta di fare gli accostamenti cromatici desiderati, senza preoccuparmi troppo della loro adeguatezza. Forse si tratta di una dimensione che mi isola e mi protegge, nella quale riesco ad esprimermi attraverso il colore senza preconcetti o stereotipi. Per questa ragione puoi immaginare quanto sia fondamentale nella mia ricerca questa dinamica fra progetto consapevole e necessità di rielaborare le sensazioni per soppesarne il ritmo. Il disegno, che è fatto di segni ma anche di tracce e di colori, rappresenta già il passaggio successivo dove tutto quello che vedo si trasforma in materia».
Quali sono gli artisti con cui ti stai confrontando?
«Rothko, Vuillard, Goya e Bergman: Rothko per la sua solidità, per i colori, e la visone pessimista dell’esistenza; Vuillard per la capacità di rendere l’essenza di ciò che ritrae attraverso campiture di colore; Goya perché ha descritto meglio di tutti la parte più abietta dell’uomo, e infine Bergman perché ha ragionato approfonditamente sulla natura della mente umana, sulla sua follia.
Ma di sicuro, i giovani artisti dell’atelier f di pittura, insieme al Prof Carlo Di Raco, con i quali sono cresciuta, rimangono un punto di riferimento. Lavoro ancora con loro all’Accademia delle Belle Arti di Venezia».
Illustrami il rapporto che hai instaurato con l’atelier f?
«È un rapporto sia lavorativo che affettivo. L’atelier f, ovvero il nostro laboratorio di Pittura dell’Accademia di Venezia, è un terreno sul quale gli studenti e i giovani artisti hanno modo di esprimersi liberamente senza alcun tipo di limitazione concettuale o di stile. È anche un confronto collettivo, dove gli artisti più giovani e i più esperti riconoscono l’importanza del lavorare insieme al fine di raggiungere la qualità e attraverso la valorizzazione di ciascuno. Credo, con tutta l’umiltà possibile, che l’atelier f sia un cardine della pittura in Italia, al cui interno, senza troppa rivalità, crescono grandi pittori. Solo per ricordare alcuni artisti accanto ai quali ho lavorato e sono cresciuta all’interno del nostro laboratorio, cito: Nebojša Despotović, Thomas Braida, Valerio Nicolai, Jaša, Aleksander Velišček, Goran Gogić, Andrea Grotto, Veronica De Giovanelli, Enej Gala, ed altri un po’ meno giovani che continuano ad interagire con gli studenti».
In cosa ritieni maggiormente formativo il contesto veneziano e quali sono le sue peculiarità?
«Parlando sempre del mio milieu pittorico, posso dire che la grande fortuna di Venezia è quello di avere questo corso di pittura, che, negli ultimi vent’anni, ha accompagnato nella crescita tantissimi artisti. I giovani che arrivano oggi hanno modo di confrontarsi con una pittura da tempo matura. (Tanti altri pregi legati alla città come l’acqua, gli spazi piccoli ma ricchi di opere, i ponti, che alle volte possono essere anche un difetto, e anche gli spritz). Venezia sembra quasi un grande laboratorio artistico dove l’unico modo che si ha di perdere tempo è andare a bere in campo ma, per il resto, si è molto concentrati sul proprio lavoro».
Parlami del concetto di energia e come lo applichi alla pittura.
«Non so cosa intendi con concetto di energia, ma da come lo concepisco io direi che tutto ciò che precede la pittura, ovvero la ricerca, la compressione della dimensione culturale o la semiotica della natura, è una sorta di raccolta di energie che fluiranno tutte nella realizzazione di un’opera. Ogni aspetto della vita e della nostra storia (famiglia, terra, libri, opere d’arte che ci emozionano) costituisce la forza, il propellente, l’energia che alimenta e anima ogni scelta e tutti gli atti che ne conseguono. In sostanza, la pratica pittorica agisce come una dinamo: trae la forza dalla spinta delle nostre attività, raccoglie e riproduce l’energia che nutre e fa chiarezza sul nostro percorso».
Mi piacerebbe che descrivessi una mostra che ti ha appassionato.
«Mi ha emozionato moltissimo la mostra sui capolavori della dinastia Bruegel ospitata nel Chiostro del Bramante a Roma. Una volta terminata la visita, è sorta in me immediatamente la voglia di tornare indietro per poter scrutarla, analizzarla nuovamente, ancora per ore. Mi ha colpito particolarmente la ricchezza dei dettagli e la visione dell’umanità, alle volte grossolana, in cui l’uomo è scrutato nelle sue diverse tipologie. Tutti questi particolari così ben descritti attraverso il colore sono subito entrati nella mia testa e nel mio cuore».
Entri nel dettaglio della figurazione ma dipingi astratto…
«Anche se dipingo con forme di pittura astratta, io sono sempre stata maggiormente attratta dalla pittura figurativa. Dopo aver visitato la mostra prima citata, ho avuto modo di porre maggiore attenzione sui dettagli e sulla loro rappresentazione: ho arricchito così il mio percorso con approfondimenti mirati all’esplorazione più profonda di ogni sfaccettatura, anche la più remota, delle cose che mi circondano, o delle relative forme, che raffiguro nel mio modus operandi».
Sulltane Tusha: Cosa ti affascina delle persone
Andrea Bruciati: «L’intelligenza associata al cuore».
Sulltane Tusha nasce a Shijak, Durazzo (Albania) il 16 marzo 1988. Vive e lavora a Venezia.