Categorie: rubrica curatori

ALLONS ENFANT/24

di - 9 Gennaio 2017
Andavamo avanti a cercare, e nello spazio s’infittivano i segni, da tutti i mondi chiunque ne avesse la possibilità ormai non mancava di marcare la sua traccia nello spazio in qualche modo, e il nostro mondo pure, ogni volta che mi voltavo, lo trovavo più gremito, tanto che mondo è spazio parevano uno lo specchio dell’altro, l’uno e l’altro minutamente istoriati di geroglifici e ideogrammi, ognuno dei quali poteva essere un segno e non esserlo: una concrezione calcarea sul basalto, una cresta sollevata dal vento sulla sabbia rappresa del deserto, la disposizione degli occhi nelle piume del pavone (pian piano il vivere tra i segni aveva portato a vedere come segni le innumerevoli cose che prima stavano lì senza segnare altro che la propria presenza, le aveva trasformate nel segno di se stesse e sommate alla serie dei segni fatti apposta da chi voleva fare un segno).
Italo Calvino, Le Cosmicomiche, Mondadori, Milano 1993, p.38.
Il segno, illustramene il valore.
«Considero il segno una parte molto importante del lavoro perché innanzitutto è il veicolo di ogni mia scoperta. Ne è l’esempio la pratica del disegno, grazie alla quale prende forma un’immagine di cui riesco a comprendere e ad intuirne i possibili collegamenti di significati. Lo considero uno strumento di conoscenza della realtà, “il più completo e alto”, come lo definisce Paul Valery, attraverso cui poter rallentare la velocità di osservazione e aprirsi a nuove possibilità. È il gusto della scoperta di un territorio nuovo come può essere una tela, un foglio o una materia grezza da lavorare: lo stupore nel capire che ciò che ci circonda ha una natura più compressa di quello che normalmente vediamo e la soddisfazione di poter inoltrarsi in una dimensione nuova. Ulteriore motivo per cui il termine mi sia tanto caro, è perché può essere inteso anche con l’accezione di “fenomeno da cui trarre indizi e informazioni” (cit. Treccani) e “comunicazione mendicante oggetti e simboli” (cit. Treccani). Soprattutto negli ultimi anni, la mia ricerca si è concentrata su questi due significati: ho scoperto di essere affascinato e incuriosito dalla necessità di collezionare piccoli oggetti, immagini, ritagli di foto, di disegni, pezzi di testi e romanzi e dalla convinzione, forse ingenua, che all’interno del “sistema cromosomico” di questi oggetti, ci siano delle indicazioni per cui poter ricavare un codice di lettura nuovo, come quando il protagonista del romanzo di Bernard Quiriny La biblioteca di Goult, scopre che la sezione dei libri più noiosi della storia della letteratura, sono lo scrigno di racconti avvincenti e misteriosi, basta solo trovare l’algoritmo giusto per leggerli».

Operare è perciò una sorta di pratica indiziaria?
«Indubbiamente mi piace collezionare. Mi sono accorto di avere una particolare curiosità per quelle cose a cui la mia immaginazione si lega e grazie a cui posso ricreare degli ambienti: dico ambienti perché possono essere di molte tipologie. Ognuna contiene un certo climax che si lega, inevitabilmente, ad una situazione vissuta, archiviata nella nostra mente, recuperata grazie ad alcuni indizi che diventano dei segnali d’orientamento. In questo modo mi è sempre parso di poter trattenere il tempo, di poterlo rallentare, potendo utilizzare questa strana accozzaglia di segni, come chiavi per accedere a possibili dimensioni della realtà. Grazie alla pratica, sono riuscito a dare un valore a questa curiosità, individuando finalmente il livello in cui inserirmi e sviluppare una ricerca artistica personale. Nel momento in cui ho capito che avrei potuto servirmi di questi “contenitori”, per creare delle storie, ho capito che avrei avuto la possibilità di entrarci dentro e curiosare. Mediante la pittura mi sono insinuato in questi oggetti inutili, trattandoli come indizi, ovvero segni astratti o concreti che con la loro presenza possono indicare altre cose».
Si può definire la tua pittura come comunicazione simbolica?
«Solitamente penso al dipinto come ad un ambiente che arredo mano a mano che mi ci addentro. Lo intendo come La casa di Utz dell’omonimo romanzo di Bruce Chatwin, come un organismo che si complica con l’invecchiare del suo proprietario. Mi piace pensarlo come un inventario di “testimoni inanimati” che in qualche modo siano stati in grado di catturare e custodire sotto la loro corteccia, il passaggio del tempo potendo così mettere in atto storie che nascano dalla relazione promiscua tra di loro. Ricordo una lezione interessante durante uno dei miei primi anni di Accademia, in cui sentii per la prima volta analizzare la parola Simbolo, scoprendo che il termine è composto da “insieme”  e “gettare”. Simbolo viene inteso anche qualunque elemento che susciti nella mente un’idea diversa da quella offerta dal suo primo aspetto sensibile, ma capace di evocarla».

Partendo dai primi anni di Accademia, parlami del tuo percorso.
«Ho frequentato contemporaneamente Liceo Artistico e Accademia Musicale a Schio. Quando ho dovuto scegliere se fare sul serio con Violoncello mi sono iscritto invece al corso del Prof. Di Raco all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Qui è iniziato un percorso all’interno di un organismo vivo e complesso, strutturato in modo che le differenti inclinazioni di ciascuno, l’esperienza, e il costante confronto visivo fossero il cardine della crescita artistica. Sono stati anni molto intensi. Verso la fine del triennio ho cominciato un lavoro sistematico sul tema del paesaggio, percorrendo a piedi lunghe escursioni nell’arco alpino tra la provincia di Vicenza e di Trento per poi restituire, per segni e sovrapposizione di campiture l’itinerario percorso: il tutto solo attraverso la memoria. Il risultato era un nuovo paesaggio dai contorni imprecisi e poco dettagliati ma segnale di un tempo trascorso. La memoria funziona per immagini e a riportarle ai nostri occhi sono quei pochi elementi che inventariamo e che diventano una sorta di scrigno di altre informazioni: così ho spostato l’attenzione sulla potenza di questi elementi. Durante il quinto anno di Accademia tra il 2013 e 2014, assieme al collettivo How we dwell, (make your own residence) fondato assieme a Marco Gobbi, Cristiano Menchini e Adriano Valeri, ho vinto la residenza presso la Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia in cui abbiamo approfondito in modo significativo il concetto di dimorare un ambiente. Al centro di questo progetto, un kit da consegnare agli artisti invitati, contenente pochi elementi significativi, pretesto per mettere in comunicazione il luogo della residenza e la tipologia di ricerca degli artisti. A questo è seguita una residenza a Berlino, assegnatami in occasione del Premio Combat, dove ho ricalibrato la mia personale poetica potendo dedicarmi per tre mesi, interamente alla pittura e alla ricerca, la stessa che sto portando avanti oggi».


Far parte di un collettivo in che modo ha inciso sulla tua visione?
«Il progetto ha avuto inizio nel momento in cui, per una coincidenza di interessi comuni, ci siamo trovati ad avere voglia di sviluppare le stesse tematiche e affrontare qualcosa di nuovo che convincesse tutti e quattro. Uno degli aspetti che più mi ha colpito è stato il ritmo di lavoro: in quattro si lavora molto più in fretta, e quindi si pensa anche ad una velocità maggiore. Credo sia proprio questo ritmo di diverso che ha contribuito a modificare il mio modo di lavorare: come si può facilmente immaginare, quelli che prima erano monologhi interiori e personali, sono dovuti diventare dialoghi e confronti costruttivi e proficui. La costante verbalizzazione smonta e rimonta il lavoro che si sta sviluppando e, per forza di cose, spesso si devono valutare e accettare le idee di qualcun’altro. Vedere il lavoro da un’altra angolazione cercando di far coesistere l’apporto di ciascuno, è stato un insegnamento insostituibile».
In che modo intendi il tuo operare: la tua formazione è pittorica, ma ti estendi liberamente in altre pratiche (incisione, scultura). Che necessità soddisfi in questo modo?
«Credo che il punto centrale sia la curiosità e pertanto vi sono situazioni e tematiche che si prestano meglio di altre ad essere indagate con alcuni media piuttosto che con altri. Il mio punto di partenza è l’immagine, e lavorare con altri materiali e tecniche rappresenta una esigenza pragmatica solo se possono portarmi vicino a ciò che cerco, semplificando la lettura del messaggio. Lo trovo un modus operandi accattivante perché ogni volta è come cambiare alfabeto: ad esempio mi sono avvicinato alla scultura trattando in modo diverso gli elementi che utilizzavo per la pittura, o meglio, utilizzando proprio gli stessi elementi come la tela la carta e le colle. Dalle serie di disegni Walking ho iniziato a lavorare con il legno da cui è nato il lavoro Did you know stones can fly? in cui ho ricreato un ambiente abitabile per poterlo veramente fruire fisicamente. Era interessante perché gli oggetti che costruivo in studio, prendevano posto nei dipinti e viceversa. In fondo mi piace che ci sia una sorta di altalena tra la rappresentazione, un’immagine è prettamente mentale, e la sperimentazione fisica di quello spazio o di suoi elementi, perché mette in gioco un processo percettivo sinestetico e perciò più completo. Al momento sto lavorando ad un progetto che mescola la pittura alla moda in collaborazione con un giovane stilista di Venezia e riguarda la percezione della temperatura avvertita proprio grazie alla pittura».
Andrea Grotto: Storicamente sappiamo che l’arte fa parte della vita e dell’identità della nostra cultura. Ti sembra che il ruolo dell’artista e dell’arte quindi si possa ancora definire sociale?
Andrea Bruciati: «Il ruolo dell’artista è sempre sociale nel momento in cui l’opera che realizza si oggettiva ed estende il suo portato a diversi strati della comunità, sollecitando stimoli culturali ed emotivi. Non credo invece in un “arte sociale” derivativa, sempre retorica e noiosa, ma oggi tanto di moda grazie a colleghi narcisi che la supportano con una certa superficialità».
Andrea Grotto ha 28 anni, è nato a Schio,Vicenza, vive e lavora a Venezia.

Andrea Bruciati

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