“Per quello che riguarda le memorie in genere, metto in guardia il lettore sul fatto che il venti per cento di esse, in un modo o nell’altro, sono dei falsi. La continuità è pure inganno. La memoria umana è organizzata in modo tale che come un riflettore illumina singoli momenti, lasciando intorno un buio invincibile. Da che cosa iniziare è perfettamente indifferente: da metà, dalla fine o dall’inizio Io, per esempio, voglio adesso iniziare dal fatto che queste casette verdi con le terrazze a vetrate (io vivo in una di esse), stavano ininterrottamente davanti ai miei occhi (chiusi) nel 1951, nell’ospedale sovietico n. 5 (Mosca), quando io ero ricoverata dopo l’infarto e probabilmente mi trovavo sotto l’azione del pantopon. Queste case ancora non esistevano – le costruirono nel 1955; ma quando io le vidi mi risovvenni all’istante di dove le avevo viste prima.”
Anna Achmatova, Io sono la vostra voce, Studio Tesi, Pordenone 1990, pp. 27-29.
Illustrami il valore che ha per il tuo lavoro la memoria e quali sono le strategie creative in tal senso.
«Credo che tutti i miei lavori si confrontino con la memoria, forse per la sua vicinanza con la sfera dell’immaginazione e del racconto. In fondo la memoria è un tentativo di dare una forma al vissuto, di rappresentarlo, in tutto simile al fare artistico. Lo spazio dell’arte è uno spazio dove la memoria può agire nel presente: dà forma a una sua narrazione diventando esperienza possibile. Tre anni fa mi interessai alla biografia di una scrittrice di Edimburgo vissuta nell’Ottocento, Susan Edmostone Ferrier. Tra le sue lettere ne trovai una in cui si rivolgeva a un ipotetico biografo che l’avrebbe studiata. Mi colpì il suo proiettarsi nel futuro, nel “fare memoria” di un altro, e mi sentii interpellata direttamente, in una specie di gioco letterario che attraverso la scrittura riusciva ad aggirare il tempo. Dall’incontro con quella lettera è nato il lavoro Autoritratto, Susan Edmonstone Ferrier, 1818. Attraverso la fotografia ho creato l’immagine – messa in scena di un’identità scomparsa, come fosse il ricordo di qualcuno che non avevo mai conosciuto. In questo procedimento si delineava uno spazio in cui diversi piani temporali potevano coesistere, in una ricostruzione impossibile e soggettiva. La traccia scritta, unica rimanenza di questa identità lontana, si traduceva in una dimensione visiva e materica».
Il tuo percorso?
«Ho studiato Lettere Moderne e Arti Visive a Bologna. Nel 2011 ho passato un anno a Parigi per studiare il lavoro di Sophie Calle per la tesi di laurea. Tornata a Bergamo ho lavorato all’interno del progetto “Ogni Cosa a suo Tempo”, dove, tra gli altri, Navid Nuur aveva lavorato sulla materialità della luce in rapporto allo spazio storico. Mi sono poi iscritta alla scuola di fotografia di Modena, durante la quale ho passato un periodo in residenza al centro di Fotografia di Edimburgo. Mi ricordo un discorso di Vittore Fossati sul paesaggio, che percorreva la storia dell’arte e dell’urbanistica, collegando occhio materia attenzione immaginazione e ironia. E il confronto costante con i miei compagni di corso. Nella propria formazione rientra poi tutto ciò che la quotidianità e le persone con cui la condividi ti portano ad assorbire, il modo in cui forzano le tue curiosità. Una delle prime volte che feci vedere il mio lavoro, un artista – di cui non farò il nome – mi disse che dovevo liberarmi dalla realtà. Cerco di ricordarmelo sempre».
La pratica fotografica è stata una esigenza o una scelta a posteriori?
«Ho scelto di approfondire la fotografia, che era stata per tanto tempo “solo” un’esigenza. Non voglio ridurre l’importanza dell’urgenza o la profondità delle azioni spontanee. La fotografia ha sempre fatto parte del mio rapporto con la realtà e con le persone. L’uso che ne facevo era estremamente emotivo, e non rinnego questa emotività, anzi: trovo che spesso entri ancora nei miei lavori. Ma quando ho iniziato a conoscere la fotografia anche dal punto di vista teorico le sue potenzialità mi hanno affascinato, come fino a quel momento aveva fatto solo la scrittura. Per creare qualcosa che andasse al di là della mia esperienza, dare corpo a un pensiero o a una visione, sentivo la necessità di conoscerne le tecniche e i materiali. Era necessario per me prendermi un tempo di concentrazione per sperimentare e avere maggior consapevolezza del mezzo. E la mia pratica resta tutt’ora prevalentemente fotografica, anche quando creo delle interazioni con la scrittura. Cosa che mi viene spontanea. Da che ho ricordi, ho sempre scritto».
In cosa ritieni sia diverso il tuo sguardo?
«Tu mi dici sguardo, e mi viene da pensare a ogni aspetto del pensiero che sta intorno a un lavoro: dal desiderio che provo verso un soggetto, alla scelta del punto di vista per conoscerlo, fino alla decisione della forma che assumerà nel mio linguaggio. Tendo a scegliere un punto di vista ravvicinato al soggetto, obbligando a percepirne un aspetto preciso che emerga in un modo unico. Credo che questo tipo di immagine acquisti una sua autonomia, come nei lavori Selca IV a.C., e in un video in cui ho ripreso la Metopa degli Antipodi conservata a Modena. La pietra costruita-scolpita-scavata è in entrambi i lavori la materia su cui mi sono concentrata. Se nelle fotografie della Necropoli di Selca ne emerge la sostanza, nel video (tre inquadrature fisse, come fossero tre fotogrammi continui) il movimento della luce sul viso della statua sposta l’attenzione sul dato temporale, dall’assoluto si passa a una dimensione di contingenza. In entrambi i lavori lo sguardo è chiuso nell’inquadratura. L’occhio non può spaziare. Il dettaglio occupa la superficie o obbliga l’attenzione. Questo è il modo in cui guardo, e non potrei farlo in altro modo».
La tua analisi “petrosa” sulla materia: potresti parlarmi di questa tua attenzione verso la fissità delle cose?
«Credo che si fondi sulla certezza che la fissità non esiste. Cerco quella dimensione artificiale e ricreata in cui l’uomo proietta il suo desiderio di avere un controllo sul tempo e sullo spazio, lasciandovi una traccia. È quello che mi affascina dei restauri e della cosiddetta conservazione: si interviene continuamente su una superficie per creare l’apparenza che quella superficie non muti. I musei cercano di proteggere un dato oggetto, di dargli uno spazio nella memoria collettiva, trasformandolo in un punto fermo. Si è sempre alla ricerca di una presenza. La fotografia riesce a creare un dialogo profondo con questa dimensione, grazie alle sue specificità di mezzo legato al concetto di matrice e di impronta, alla possibilità di fissare un instante di luce e di renderlo oggetto. Con la fotografia mi piace indagare una superficie, vederne le nervature, è un modo di osservare le cose da vicino e trasformarle, di cercarvi delle forme assolute, archetipe. Un tentativo [concettuale] di spogliare il lavoro di tutto ciò che ha a che fare con la contingenza. La fotografia, che è sia immagine sia sostanza, innesca sempre una dialettica immobilità / trasformazione, in cui qualcosa può riapparire in un ciclo ripetitivo e quasi rituale. La fotografia sta. Poi in questo suo stare, paradossalmente, riduce tutto a superficie, e la materia viene come svuotata del suo senso. Crea un vuoto: manifesta un’assenza».
Nel tuo rimando alla matrice leggo ovviamente la Krauss: in che modo conformi la sua declinazione al concetto?
«Il negativo fotografico è una matrice, è un’impronta del reale che ha insita in sé la possibilità di moltiplicarlo e manipolarlo. “Aumentando i modi in cui il mondo può essere presente allo sguardo, la macchina fotografica mediatizza questa presenza, si pone tra l’osservatore e il mondo, modella la realtà secondo i propri termini. […] La realtà ne risulta al tempo stesso ampliata e sostituita o soppiantata da quel supplemento supremo che è la scrittura”: queste sono parole di Rosalind Krauss. Creare una matrice è anche costruire e ricomporre, ha a che fare con qualcosa di sdoppiato e di ambiguo. La lettura della fotografia secondo la categoria dell’indice liberava la fotografia dalla sua identità con il reale, e la poneva in connessione fisica con esso: una vicinanza quindi, ma anche, e soprattutto, una distanza. Credo che siano anche queste le riflessioni che mi portano a scegliere di lavorare sui dettagli, o a usare immagini ‘trovate’ come pezzi di realtà di cui indagare la superficie, o da cui ricavare una nuova impronta. Il concetto di matrice ha anche un significato sociale se legato al fotografico e alle immagini. Se un modello, estetico o di comportamento, è in un certo senso una matrice, un qualcosa che dà forma a qualcosa d’altro, che si ripete e che condiziona, l’influenza che la fotografia ha avuto sui modelli di comportamento e sull’immaginario intesse delle analogie profonde con questa declinazione: sono le pose che troviamo nelle vecchie stampe fotografiche o nelle vecchie riviste, le quali, ingrandite, rivelano solo la trama della carta. Se poi pensiamo la realtà percepita come una rappresentazione, allora “tutti i nostri punti di riferimento, cosa diciamo, come ci comportiamo sono già dei cliché” (Gerard Richter, 1972)».
Eleonora Quadri: A volte mi sembra che l’insieme delle forme sociali che l’arte assume sia ripiegato su se stesso, il modo ristretto in cui viene condivisa, le sue dinamiche. Se la ricerca non assume una dimensione realmente collettiva, se non pretende uno spazio pubblico, e quindi se non riesce a passare dall’io all’altro, non si rischia la sterilità? Non dovrebbe essere più usata dalla società? C’è uno spazio sincero secondo te per questo tipo di autocritica (autocritica sia del mondo dell’arte, sia dei non addetti ai lavori)?
Andrea Bruciati: «Non concepisco l’opera come un tassello finalizzato ad un sistema, ma come uno canale di stimolo emotivo e pertanto conoscitivo. Come tu auspichi, credo ancora in uno spazio “sincero”, dove l’autocritica nei confronti delle posizioni che assumiamo può e deve rimanere vitale».
Eleonora Quadri, nasce a Bergamo nel 1986. Vive e lavora a Bergamo.