“Si direbbe che il loro stato normale sia il silenzio, e la parola una piccola febbre che li prende di tanto in tanto”.
Jean Paul Sartre, La nausea, Einaudi, Torino 2014, p. 73.
A cosa si riferisce quando pensa al termine parola e perché la trova affine alla sua ricerca?
«Sartre si riferisce ad un rapporto di coppia e lo descrive rievocando alla mente del lettore quello che dovrebbe essere il normale procedimento che va dalla formazione di un’idea, un pensiero (il silenzio), alla realizzazione di un gesto, una fisicità percettibile (la parola). Sono cresciuto come scrittore per poi inoltrarmi nel mondo dell’arte quando il significato emotivo delle parole scritte venne a mancare. Sono sicuro che, più che la parola, che in fin dei conti rappresenta un tassello importante nella ricerca e nella digestione che conduce al lavoro, mi ha sempre affascinato molto il silenzio, l’osservazione. É un gioco che faccio giornalmente con la complicità delle mie influenze, come fossi un ladro, un infiltrato. Un procedere a tempo pieno, in punta di piedi: una febbre costante e leggera, quindi. Tutti i miei lavori sono nati e cresciuti da una necessità che nel processo si trasforma fino alla sua realizzazione: un finale drammatico nel quale capisci di aver abbandonato quell’idea iniziale perché consumata e conclusa come fosse un rapporto sessuale occasionale. Diversi i media utilizzati ma costante il silenzio e nulla risulta forzato: tutto viene coerentemente da sé ed ogni volta è sempre qualcosa di nuovo che mi arricchisce».
Mi illustri questa sua analogia fra atto creativo e pratica sessuale?
«Più che altro mi piace definire il lavoro in toto come un rapporto amoroso dove, tra i due estremi, la sofferenza e il godimento, si svolgono una serie di circostanze che sviluppano la storia fra autore e opera. Ogni lavoro è un rapporto differente, ecco perché “occasionale”; una volta esaurita la necessità resta la fisicità del ricordo ed un graduale bisogno di abbandonarlo per lasciare il posto ad una nuova ossessione e così procedere. Personalmente baso la mia ricerca, e conseguentemente ogni pratica, sul vissuto giornaliero: è un passeggiare per mano con il proprio lavoro, sapere che ogni sguardo potrebbe essere un potenziale oggetto di riflessione, ogni avvenimento, ogni parola udita per strada. Il tutto sfocia nel prodotto finale che diventa quindi soluzione o sintesi della mia stessa esperienza».
Parlando di quotidiano: ritiene che il suo possa essere un lavoro che trascende il reale o che ne rappresenta l’essenza?
«Ne rappresenta l’essenza, senza dubbio. Spesso ci gioco distorcendola ironicamente sia nel significato che nell’allestimento, ma resta pur sempre un lavoro figlio di un’esperienza vissuta. Credo che questo attaccamento all’esperienza diretta sia il medesimo bisogno che mi portò a scrivere o a far musica in adolescenza. È un semplice modo per demistificare le difficoltà e trasformarle rendendole utili, o meglio, disarmandole. Più che da letture credo piuttosto sia un’influenza dovuta alle radici nomadi e il bisogno vitale di conoscere ogni suolo sotto ai propri piedi per sapersi muovere e conseguentemente sopravvivere. Anche questo è una sorta di reinventare un medium, e qui penso alla raccolta di saggi di Rosalind Krauss, quando il medium base è l’essere in Se, potenzialmente poi potrebbe diventare chiunque. A tal proposito vorrei consigliare le letture: L’idiota di Fedor Dostoevskij e ancora L’utilità dell’inutile di Nuccio Ordine».
Formazione e obiettivi.
«Sono diplomato in lingue, motivo per il quale in gioventù mi innamorai della letteratura, soprattutto quella francese. Successivamente ho studiato all’Università IUAV di Venezia, facoltà di Arti Visive e dello Spettacolo, dove mi laureai nel 2014 con una tesi sul lavoro di Gino de Dominicis. Ho poi proseguito i miei studi sempre a Venezia, specialistica in Arti Visive e Moda e nello stesso anno ho partecipato alla residenza annuale negli atelier di Bevilacqua La Masa 2015/2016. Credo che questa esperienza sia la più importante e costruttiva per la mia produzione. Fondante è stata poi l’esperienza a Spinola Banna con Lara Favaretto come tutor, curata da Guido Costa e Gail Cochrane. Quella residenza fu un punto chiave e di svolta per la mia ricerca: non abbiamo fatto altro che analizzare minuziosamente i portfolio dei vari artisti presenti arrivando a sviscerare lavoro per lavoro le necessità di ogni singolo. Fu un’esperienza che personalmente servì a confermare la coerenza tra me e la mia produzione: da quel momento in poi uscì tutto più fluido e spontaneo. Nel febbraio 2016, ho ricevuto un premio per la poesia visiva in Francia, la fondazione Microcentre d’Art “La Non-Maison” che mi ha proposto anche una residenza di sei mesi tra Marsiglia e Aix-en-Provence, A quel punto ho deciso di abbandonare gli studi a Venezia per intraprendere quella esperienza lavorativa. Una volta in Francia mi sono spostato più di qualche volta a Parigi, dove mi sono iscritto all’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts. Attualmente vivo in Italia per motivi economici cercando fondi, opportunità espositive e lavoro per poter realizzare e finanziare i miei progetti».
In che modo l’aspetto narrativo, vista la sua formazione letteraria, può aver influenzato il percorso più propriamente artistico-visivo?
«L’aspetto narrativo ha un ruolo chiave, principalmente perché la maggior parte delle le mie ossessioni sono accese dalla narrativa, altre volte invece sono le mie ricerche che si sviluppano anche attraverso romanzi e, inoltre, tutti i lavori manuali e materici li ho prodotti dopo averli immaginati e descritti scrivendo racconti brevi o lettere senza destinatario. Ciò che mi affascina in un lavoro è soprattutto la ricerca di un’estrema semplicità, la sintesi negli elementi visivi presenti, la velata ironia o provocazione e, nel mio caso, il senso di mancanza, elemento che esce spontaneo in tutta la mia produzione. Detesto la pedanteria e l’ostentazione concettuale e visiva. Son dell’idea che la ricerca debba essere un valore aggiunto in primis per la sincerità del pezzo proposto, quindi una sorta di rispetto verso il pubblico, secondariamente per una continua crescita personale come artista e individuo. Alcuni riferimenti letterari che nel tempo sono diventati fondamentali per la mia produzione sono l’esistenzialismo di Sartre e Camus, l’analisi sulla percezione di Merleau-Ponty e, in particolare Frammenti di un discorso amoroso di Barthes».
Ironia e semplicità: può darmene una definizione traendo esempio da alcune opere?
«Credo che la semplicità sia l’immediato recepire, far immedesimare chi osserva in una riflessione attraverso il proprio lavoro. Dev’esserci solo un passo tra il vedere e il sentire “tac-tac” mi disse una volta un amico. Semplice è anche coerenza nell’imperfezione, nell’errore, non soffocare il lavoro con elementi che terrebbero a renderlo troppo macchinoso. Fra i miei lavori penso a Non ci sarà mai nulla tra di noi dove si esplicitava semplicemente il rapporto di distanza tra una zolla e il buco che la conteneva. Ho delocalizzato la zolla in un punto dal quale si potesse vedere il buco dal quale l’ho estratta, la relazione è immediata e creata dallo sguardo del fruitore. 11.11 è invece un lavoro che vive una volta all’anno, quando il sole illumina l’angolo di una finestra e si scopre la frase “Il posto delle cose da non trovare”. L’ironia è una scelta, non sempre adeguata, non sempre presente: la attivo utilizzando lo stretto collegamento che c’è tra titolo e lavoro finito e, dipendentemente dal tema da me proposto ne assume diversi significati. Mi riferisco a lavori come Origàni dove l’ironia sta nel titolo che a sua volta porta ai materiali usati; penso a Maledetta quella volta che t’ho fatto, il doppio significato che pretende questa frase in riferimento alla scultura e al suo significato, o ancora Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno. Ho usato una citazione biblica che rimanda ad una serie di significati ben presenti a tutti e difficilmente confondibili per altri contesti, inizialmente si vede l’opera con uno sguardo divertito, ma più si assiste all’autodistruzione dello skydancer più ci si avvicina ad una vera e propria crocifissione. Non è un semplice readymade ma la performance di un oggetto che rappresenta la storia dell’azienda che lo ospitava. Il pupazzo ha sembianze umane, sorride stupidamente ma ci si accorge che è falso, sfiora l’osservatore, gli sputa aria addosso, sbatte contro il soffitto e le pareti, con il suo rumore non si può né parlare né sentire, solo assistere alla sua lenta fine. Poi cade, si sgonfia, si spegne il motore e muore. È una morte che non si può prevedere, succede solo quando e se le pareti riescono a lacerarlo. Cala il silenzio e quello che prima era un monumento di aria e stoffa ora è piccolo ed insignificante».
Davide Sgambaro: Lei crede che ci si possa permettere di fermarsi, di non avere fretta, lasciarsi decantare nel tempo, slacciarsi dalla veloce quotidianità grazie al far niente (con passione) senza essere mal compresi? Come si può uscire dall’ossessivo spauracchio contemporaneo del tempo “perduto” quando questo diventa indispensabile per la nostra produzione senza essere considerati disfattisti?
Andrea Bruciati: «”Basta che un rumore, un odore, già uditi o respirati un tempo, lo siano di nuovo, nel passato e insieme nel presente, reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti, perché subito l’essenza permanente, e solitamente nascosta, delle cose sia liberata, e il nostro vero io che, talvolta da molto tempo, sembrava morto, anche se non lo era…”. Cito Proust perché ho sempre creduto in un tempo privato di cui noi siamo gli unici artefici e responsabili. Lo trovo una forma di piacere sottile, quasi intimo».
Davide Sgambaro é nato a Cittadella (PD) il 31 agosto 1989. Vive e lavora fra Mantova e Parigi.