Categorie: rubrica curatori

Allons Enfant/5

di - 22 Novembre 2014
“Le metamorfosi per fuggire, per sfuggire a un nemico, sono un fatto universale: si ritrovano in miti e in fiabe diffusi per tutta la terra. […] Una creatura insegue l’altra, la loro distanza diminuisce, e nell’istante in cui sta per essere afferrata la creature inseguita si trasforma in un’altra, sfugge. La caccia prosegue, o anzi ricomincia daccapo. Il pericolo torna a crescere. L’aggressore si fa sempre più vicino, riesce magari perfino ad afferrare la preda. E allora questa si trasforma ancora una volta in una diversa creatura e sfugge all’ultimo momento. Questa vicenda può ripetersi innumerevoli volte: basta che si trovino sempre nuove metamorfosi. Le metamorfosi devono essere inattese per lasciare stupefatto l’inseguitore, che sta cacciando una preda determinata, ben nota. Egli conosce la sua tecnica di fuga, il suo aspetto, e sa come e dove poterla afferrare. L’istante della metamorfosi lo lascia confuso. Deve scegliere un nuovo tipo di caccia. Una preda mutata esige una caccia diversa”.
Elias Canetti, Massa e Potere, 1981
Massa e Potere di Elias Canetti è un libro che raccoglie una ricerca durata trentotto anni e che ha ancora molto influenza sul mio pensiero e la mia pratica di artista. Stimo Canetti in modo particolare e forse un po’ inusuale: nonostante il suo lavoro sia apprezzato e conosciuto principalmente in ambito letterario, per me rappresenta quel senso di ‘responsabilità assoluta’ verso il mondo che lui annoverava tra le ‘responsabilità dello scrittore’, ma anche la capacità di portare avanti un modo originale di interpretare la realtà seppure esso non ricada in nessuna categoria preesistente.

Parlami di te e della tua formazione.
«Mi definisco artista e teorico interdisciplinare, spesso al lavoro con e attraverso nuove tecnologie. Sono nato a Monfalcone e ho passato i miei primi vent’anni tra il Friuli e la Sicilia. Ho poi vissuto tre anni a Bologna studiando al DAMS e poi un anno a Venezia frequentando lo Iuav. Ho inoltre studiato alla Bezalel Academy of Arts di Tel-Aviv ed alla School of Social Sciences della Bilgi University di Istanbul. Infine, poco più di un anno fa mi sono trasferito per lavorare ad Harvestworks, la prima storica noprofit ed incubatrice di arte e tecnologia a New York».
Se potessi definire la tua poetica?
«Il mio lavoro è ispirato da pratiche di tipo post-concettuale, e si basa largamente su questioni di filosofia politica e potere tecnologico contemporaneo. Mi interessa evidenziare la logica e le strutture nascoste e invisibili del potere, scovarne gli spazi ambigui ed utilizzarli per realizzare cortocircuiti concettuali e pratiche di resistenza».
Gli argomenti che intendi analizzare nel tuo lavoro?
«Tra i temi ricorrenti nel mio lavoro c’è la memoria, il rapporto tra realtà online ed offline, il lavoro immateriale, e la relazione tra uomo e potere tecnologico. Nel mio lavoro ho spesso lavorato attraverso la fotografia, ad esempio indagando la tecnologia di riconoscimento facciale in Facebook (Digital Pareidolia), fotografando scene di Google Street View prima che venissero censurate e cancellate (The Google Trilogy) o scrivendo le mie memorie all’interno del codice Ascii di vecchie foto di famiglia alterandole in modo imprevedibile (The sicilian family). Trovo molto importante muovermi costantemente da un medium all’altro e nonostante una predilezione per l’immagine mi trovo a mio agio sperimentando con nuove tecnologie tanto quanto con media più tradizionali».
Altre modalità per altri esempi.
«La realizzazione pratica riflette sempre un approccio post-concettuale. A volte le opere richiedono tempi lunghissimi, come nel progetto (che pubblicherò a breve) Memoryscapes, che mi ha tenuto impegnato per quasi due anni e consiste in un vasto corpus di lavori, tra cui una serie di fotografie olografiche create dall’unione di dati satellitari e memorie collettive raccolte a New York, una pubblicazione e una serie di immagini digitali meta-documentarie. Altre volte le opere si realizzano senza apparentemente fare nulla, come nella serie The Italian job. Per la prima opera ho “rubato” un programma di residenza online registrandolo a mio nome insieme a tutte le opere lì prodotte. L’opera nasconde una complessa mediazione tra me, la curatrice della residenza, gli artisti coinvolti, e il mio “sostituto” (la curatrice Lucrezia Calabrò incaricata di certificare la validità della mia operazione artistica). Nel secondo Italian Job ho messo in vendita copie, autenticate da me, di fotografie storiche attualmente ricercate dall’FBI. Anche in questo caso la validità dell’operazione artistica è validata dai testi critici di Monica Bosaro ed Emma Stanisic. L’operazione si struttura su due livelli principali: le mie copie autenticate vengono fisicamente acquistate (in Bitcoins) attraverso Openbazaar, una sorta di eBay crittografato ancora in fase di sperimentazione teso alla creazione di un network di vendita decentralizzato, autonomo ed Open Source. Le stesse immagini, ma in formato virtuale, saranno visibili a tutti per un mese sotto forma di GIF animata su tutti i cellulari, tablet e computer connessi alla Widget Art Gallery di Chiara Passa».
Il dialogo è un aspetto pertanto importante nella elaborazione dei progetti?
«Si, l’aspetto collaborativo, insieme alla ricezione del pubblico, è tra gli aspetti che maggiormente mi interessano. Le collaborazioni avvengono spesso con altri artisti, curatori o programmatori, ma ho anche siglato da poco una collaborazione con il villaggio cinese di Dafen, in cui vivono migliaia di pittori copisti (The captcha project). La nostra collaborazione prevede la realizzazione di decine di dipinti basati su codici captcha che invio loro, e la condivisione di costi e profitti del progetto. Nonostante l’aspetto economico sia presente in ogni collaborazione, in quest’ultimo caso è il perno centrale del progetto, dunque per me una nuova esperienza».
Analisi teorica e modalità operativa in che modo si compenetrano
«La mia arte segue una sorta di pista parallela ai miei interessi teorici, due percorsi correlati ma indipendenti in cui l’ambito visivo non si limita a illustrare la teoria e la teoria non funge da didascalia al visivo. Pratica e teoria come ricerca sul campo. L’obiettivo è quello di operare in modi diversi per raggiungere diversi tipi di conoscenza, pubblico e comprensione del mondo. Mi è indispensabile mantenere una metodologia flessibile, dunque continuerò a sperimentare muovendomi tra teoria e pratica».

I tuoi interessi extra artistici?
«Leggo in modo sistematico. Passando da un interesse all’altro. Recentemente Canetti, Foucault, Arendt e adesso un po’ alla volta i cosiddetti pensatori dell’Italian Theory (Antonio Negri, Paolo Virno, Franco Berardi) e della Visual Culture. A cui accompagno disparate letture per lo più underground sull’avvento di nuove mitologie tecnologiche. Mi piace pensare alla lettura come a una sorta di radar attraverso cui seguire le tracce e i pensieri che si muovono attorno a me, attento a non perdere qualcosa di importante».
Per quanto riguarda il visivo invece?
«Il visivo è il mio modo di orientarmi nel mare di informazioni in cui navigo. Adoro il disordine e fingo di ordinarlo per capirlo meglio. Scandaglio immagini, le archivio, organizzo, memorizzo e digerisco. Non saprei dirti con precisione cosa guardo, ma ricordo sempre dove e quando ho visto qualcosa, sia che si tratti di un’opera vista in una galleria o un’immagine postata da qualcuno su facebook. Personalmente necessito di creare metodi di osservazione e cerco di sistematizzare il mio modo di memorizzare le cose per ovviare alla mia predisposizione ai continui salti e alle connessioni spontanee tra una cosa e l’altra. Provo anche a delimitare cronologicamente cose che per me tenderebbero ad appiattirsi tutte assieme in una dimensione visiva atemporale. Il visivo come sistema di navigazione, mappa e bussola allo stesso tempo, e la sistematicità come iscrizione nello spazio-tempo».
Un esempio?
«Una volta da ragazzino ho passato dei mesi catalogando tutti i libri dei miei genitori, organizzandoli per data, autore, casa editrice, senza che ve ne fosse necessità alcuna se non quella di provare a possedere quella montagna di informazioni in modo più totale. In quegli anni ricercavo anche codici segreti associando numeri e colori durante le ore di matematica e mi domandavo se esistessero forme geometriche capaci di descrivere il passare del tempo. Gli anni passano, le tecniche si affinano, alcuni motivi si scoprono, ma le predisposizioni e le fascinazioni restano immutate».

Emilio Vavarella: Molti artisti si cimentano con la curatela e molti progetti curatoriali possono essere considerati opere d’arte. Non so se si tratta solo di un trend momentaneo, ma credo sia sintomo dello sgretolarsi di categorie lavorative. Pensi che pratiche di confine sono sempre esistite e più meno sempre esisteranno, o pensi sia l’inizio di un nuovo modo di essere e lavorare nel mondo dell’arte? Ed in tal caso, quali conseguenze prevedi?
Andrea Bruciati: «Mi piacciono molto le pratiche di confine – gli artisti sono i miei primi collaboratori – perché le ritengo idonee ad una presa di visione differente in quanto laterale. Sono comunque convinto che questa prospettiva ‘eccentrica’ possa essere garantita solo e sempre specificando i ruoli e le competenze. Questo sgretolamento in atto, come giustamente lo definisci, è da imputarsi ad una progressiva mancanza di ‘competenze scientifiche’ da parte degli operatori che hanno ormeggiato il loro bagaglio culturale e critico facendo sì che la curatela si trasformasse in semplice organizzazione di eventi. Dinanzi a questa funzione disciolta e banalizzante si stanno creando canali alternativi, destrutturati e di certo più autentici, che prefigurano nuovi orizzonti rispondenti però più ad esigenze immediate che a riflessioni di lungo corso. Detto questo confido nella passione e attenzione progettuale da parte di tutti i soggetti coinvolti e mi auguro di trovare sempre spunti di interesse nelle soluzioni formulate».
Emilio Vavarella è nato a Monfalcone (GO) il 16 maggio 1989. Vive e lavora a New York.

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