Categorie: rubrica curatori

ALLONS ENFANT/8

di - 26 Gennaio 2015
“Tutta l’ansia che ci portiamo dentro di noi, tutti i nostri sogni contrastati, la crudeltà inspiegabile, la nostra paura di estinzione, l’intuizione dolorosa nella nostra condizione terrena hanno lentamente cristallizzato la nostra speranza di una salvezza ultraterrena. L’enorme grido della nostra fede e il dubbio contro l’oscurità e il silenzio sono la prova più terribile del nostro abbandono e della nostra terrificante conoscenza  inespressa”.
Ingmar Bergman. Persona, 1966
Come mai hai voluto citare un film?
«Perché in questo film sono presenti sia l’intensità visiva, sia questo frammento di lettura che introduce una forte narrazione immaginativo-verbale. È uno dei film recenti che mi sia rimasto più fortemente impresso, per come si svolge la narrazione, per la quieta fermezza nello sguardo di ogni personaggio, nonostante la sua costante manifesta inquietudine, che ci appare così appropriata, inevitabile, ovvia».
Mentre guardo i tuoi lavori penso alla pelle; cosa sai dirmi a riguardo?
«La trama che rimanda alla pelle, come un trofeo: una forma di esibizionismo sociale, che persegue la conquista di una preda di carne, come apologia del contatto umano. La pelle è l’involucro mutevole nel quale siamo avvolti, soggetti al cambiamento, dalla descquamazione alla dissoluzione completa, alla perdita. Nell’ultima serie di lavori mi interessava questo riavvicinamento con la tela nella maniera più premurosa, così che la ripetitività del gesto e la lenta risoluzione dell’immagine finale mi permettessero di avere un contatto assoluto con l’intensità del gesto pittorico».
Come intendi la fisicità nel tuo procedere?
«È il punto di partenza del mio lavoro, un processo di realizzazione frenetica. La fisicità come corpo che sposta, crea, distrugge, ma non agisce sulla materia pittorica: c’è il ritaglio, lasciare la tela bianca, la tela senza telaio. Il dare e il togliere tenendo la visione fissa sulla materia che si sviluppa».

Se dovessi descrivere il tuo lavoro?
«Per me è come un tirare fuori dalla tasca un cumulo di immondizia, oggetti, briciole, farne una cosa unica: dall’unione di questi oggetti nasce una nuova forma. L’ovvietà è una visione che noi riconosciamo immediatamente, lasciandola passare senza soffermarci, come un qualcosa che abbiamo già vissuto. Mi piace rovesciare le cose: le cose ribaltate fondano una prospettiva diversa rispetto alla visione abituale; così le riconosceremo un po’ per volta, e capiremo qualcosa di nuovo sulla nostra storia».
Mi parli un po’ del tuo percorso, seppur ancora relativamente breve?
«Sono nata in Kosovo. All’età di 7 anni sono arrivata in Italia e mi sono ritrovata adolescente a Bolzano. Ogni estate mi piace però trascorrere alcune settimane a Kline, a Gjakova, dove sono nata, in Kosovo, fra gli alberi di noce, le viti, i giardini, le piccole piazze. La mia intera formazione scolastica si è svolta a Trento, poi sono arrivata all’Accademia di Belle Arti di Venezia, dove  frequento il corso di Pittura di Carlo Di Raco. Ho sempre disegnato, fotografato, dipinto, assemblato, cucito. Adesso cerco di essere presente nell’atelier del mio corso di pittura che frequento, e lavoro con Galleriamassimodeluca».

Parlami della tua pratica pittorica.
«Carte, oggetti, fotografie, tessuti, pigmenti, ogni volta riordinati in fogge differenti, per riassumere un punto di vista: una possibile interpretazione dei processi attraverso il quale ogni cosa, nella mia esperienza, ha potuto acquisire un senso.  Mi interessa la spontaneità del gesto, la freschezza, lo sporco che attraversa il procedere pittorico, la pittura come processo, come successione di imprevisti e di riscoperte, il  fare e disfare che definisce il soggetto. Mi vengono in mente, tra gli artisti che guardo: Matthew Barney, Piero Manzoni. E anche Edouard Vuillard, che mi interessa per come il racconto si intreccia con le trame formali».
Gino De Dominicis sosteneva che la pratica pittorica crea uno spazio autonomo sia fisico che concettuale: trovi attinenza con questa riflessione nel tuo lavoro?
«Assolutamente si. Dal momento in cui il mio disegno ha un’evoluzione temporale  alla  totale passività . Dal primo approccio iniziale con il lavoro alla continua mutazione formale. L’approccio, la dedizione, lo spazio che lo contiene, la luce, l’ombra, il disinteresse, la materia. La pittura che diventa un reagente dell’ambiente vicino e lontano».
Le tue passioni letterarie, da dove provieni culturalmente e cosa stai approfondendo?
«Provengo da una terra controversa, situata in mezzo a due culture, quella occidentale e quella balcanica, insomma un melting pot di etnie, religioni, lingue, costumi e colori diversi, che hanno le capacità umane e intellettuali per vivere insieme, impregnandosi e amalgamandosi come colori diversi e vivaci su una tela. Culture che nella storia, lontana e anche recente purtroppo, hanno tirato fuori ciò che vi era di peggio, confidando in ideologie e nazionalismi che spezzano la ricchezza del vivere insieme, in una terra che non è di nessuno, in cui tutti siamo di passaggio. Le immagini e le figure a cui si lega ogni mia proiezione fantastica si sono depositate sui fondali di un paesaggio naturale, fatto di piante di persone e di cose. In Italia ho conosciuto la letteratura, il cinema, la musica, fino a presentire la necessità di approfondire le forme e le strutture della narrazione. Adesso sto leggendo L’uomo che ride di Victor Hugo. Leggerò le fiabe dei fratelli Grimm, appena possibile: sono sicura di doverlo fare al più presto».

Quanto è importante il libro nella tua immaginazione o rimani più affascinata dal visivo?
«Personalmente sono molto attratta da quello che possiamo definire “visivo”: ciò che accade e che mi accade nella realtà, un discorso, un movimento, un pensiero o anche un bel film. Si tratta di una sorta di percezione che dal soggetto viene trasformata in oggetto. In questo momento è perciò il visivo che sostiene maggiormente la mia creatività, mentre per quanto riguarda i libri, seppur importanti ed affascinanti, possiedono una fantasia propria che ad oggi non utilizzo con continuità».
Parlami di come procedi dinanzi alla superficie bianca per creare le tue composizioni?
«Smetto di pensare per un momento. Penso di averne bisogno, perché tutte le immagini che si riproducono una dietro l’altra non smettono mai di popolare i miei pensieri. Mi pongo domande, alle quali rispondo con un nuovo lavoro. Questo è solo un brevissimo istante, necessario, forse, per lasciare che l’immagine cominci a prendere forma, spesso accompagnandosi a strumenti diversi, a nuovi colori, a ritmi differenti. Poi ricomincio a pensare».
Come di consueto, in questa rubrica alla fine si rovesciano i ruoli e l’intervistato pone una domanda all’intervistatore. Eccola: Che cosa ti infastidisce?
«Mi infastidiscono la stupidità e la mediocrità umana soprattutto in questo lavoro».
Barbara Prenka è nata a Gjakova (Kosovo) il 5 marzo 1990. Vive e lavora a Venezia.

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