Amleto: Non vedete niente là?
Regina: Niente. Eppure vedo tutto quello che c’è.
Shakespeare, Amleto, III atto, IV scena
Perché questo brano?
«Perché ritengo possa essere sintomatico della mia ricerca».
Cosa ti affascina dell’Amleto?
«Questo brevissimo dialogo».
Parlami del tuo percorso.
«Sono nata e cresciuta a Feltre, una piccola cittadina ai piedi delle Dolomiti dalla quale, dopo aver frequentato il liceo linguistico ad indirizzo artistico, mi sono spostata a Venezia dove mi sono laureata nel 2010 in Arti Visive e dello Spettacolo (Facoltà di Design e Arti, IUAV). In seguito per qualche mese ho abitato a Milano, ma qualcosa non ha funzionato. Quell’anno sono stata poi selezionata dalla Fondazione Bevilacqua La Masa per il suo programma di residenza, esperienza che mi suscita sempre un po’ di nostalgia. Di altrettanta fondamentale importanza per l’approfondimento della mia ricerca sono stati anche i workshop che ho avuto il privilegio di frequentare alla Fondazione Spinola Banna per l’Arte tenuti da Massimo Bartolini, Marta Kuzma e Alberto Garutti. Nel 2013 ho preso parte al programma di residenza di quattro mesi tenuto da Halle 14 a Lipsia, ma per me sono i rapporti umani e professionali che si sono andati consolidando negli anni ad aver contribuito più di tutto alla crescita del mio lavoro, come l’amicizia con Christian Frosi, Diego Marcon, Alessandra Messali e Daniela Zangrando. Da un paio d’anni la mia base è a Torino, città di cui mi piace la tranquillità che fa sembrare non vi succeda mai niente. Inoltre credo non vi sia nulla di più formativo in questo preciso periodo storico dello stare in Italia».
Come mai ritieni che costituisca un valore aggiunto lavorare oggi in Italia.
«Più che al lavorare mi riferivo allo stare in Italia; al fare i conti con la realtà di un Paese allo sfascio, con i suoi abitanti stanchi e irascibili, con i pregiudizi, con il bisogno di arrangiarsi, con la frustrazione di stare laddove la propria professione non viene riconosciuta, con le relative inadeguatezze e la fame anche a volte. Insomma parlavo di “quel che non uccide fortifica”. È questo il motivo per cui sono arrivata a credere che il Belpaese rappresenti oggi una buona palestra per i giovani artisti».
Su quale progetto stai lavorando?
«Su nessuno in realtà. Oltre al lavoro che pedissequamente svolgo per The Clinton’s Dog Syndrome e ASAP Research Library da cui sono richieste da parte mia attenzioni e cure continuative, non sto lavorando su nulla che possa ancora essere considerato un progetto. Per ora faccio quello che faccio sempre (a volte più e a volte meno): cospargo le pareti di post-it, mi incanto per strada o al supermercato, scatto foto col telefono, annoto qualche frase, scarico un mucchio di roba da internet, cammino, guardo film, leggo. Nutro una profonda gelosia nei confronti di questa fase; e per quanto io ne riconosca il valore e il ruolo all’interno del processo faccio molta fatica a condividerne i dettagli».
Qual’è l’area di interesse verso cui graviti?
«La mia ricerca gravita attorno agli immaginari collettivi e ai fenomeni mediatici (con particolare attenzione verso quelli che riguardano le nuove generazioni). In particolare mi interessa riuscire a riconoscere il potenziale che solo alcuni di essi racchiudono e analizzarne il modo in cui questi riescono a modellare i comportamenti della società a cui vengono sottoposti».
Parlami dettagliatamente di un progetto circostanziato, che ritieni coerente con le tue affermazioni.
«
The Clinton’s Dog Syndrome è un progetto su cui ho iniziato a lavorare nel 2012, quando il fenomeno delle serie tv cominciava a riguardare un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo e a sviluppare negli spettatori ossessioni talmente forti da riuscire a portarne i titoli di maggior richiamo in cima alle classifiche dei prodotti più scaricati illegalmente da internet. Presupposti questi che hanno generato un cambiamento oltre che dal punto di vista della fruizione, anche nei confronti della diffusione dell’utilizzo dei sottotitoli, permettendo così a cinefili e “seriofili” di poter finalmente immortalare in maniera tangibile e condivisibile le proprie forme di identificazione con protagonisti, situazioni e vicende appartenenti ai propri film, cartoni animati o telefilm preferiti. Nel 2013 decido dunque di dare forma a questo progetto, il cui titolo fa riferimento ad un articolo di Sebastiano Vassalli (Corriere della Sera, 9 ottobre 2011, pag. 40), nel quale viene citato l’Affaire Lewinsky in merito alle tensioni che quella serie di eventi inflisse al cane della famiglia Clinton, portandolo a soffrire della sindrome che ha successivamente preso il suo nome e il cui principale sintomo fu quello di credersi il primo responsabile della situazione che stava subendo.
The Clinton’s Dog Syndrome diventa dunque
http://theclintonsdogsyndrome.tumblr.com, un archivio in continuo aggiornamento di screenshot sottotitolati e scattati da persone che per una ragione o per un’altra, in un preciso momento della loro vita, si sono riconosciute come parte in causa in una determinata frase o circostanza e hanno dunque scelto di condividerne il proprio contributo online. Il mio progetto non vuole essere altro che questo. Uno spaccato di umanità».
C’è una componente di “resistenza” nel tuo lavoro.
«C’è senza dubbio. Così come anche una forma di arrendevolezza».
Quando secondo te un’opera può considerarsi riuscita?
«Spero di non saperlo mai! Credo che il valore dell’arte stia anche nella sua fallibilità, nel suo tendere sempre ad una perfezione inevitabilmente inarrivabile. Detto ciò, chiaro, ci sono dei test a cui sottopongo il lavoro prima di renderlo pubblico; per esempio è fondamentale resista alla privazione di qualsiasi forma di decorazione, deve riuscire a mostrarsi in maniera impassibile nello spazio, darmi la sensazione che gli manchi sempre qualcosa, che possa provocare un leggero fastidio e che l’operazione in esso contenuta sia solo un sussurrio».
Quindi non credi ad un lavoro assertivo o frontale?
«Credo di no».
Sembra che tu eluda il visivo: un vuoto fisico come se avessi un bisogno di concentrazione e alla fine risulti però poco visiva. È una contraddizione in termini, è come se non avessi fiducia nell’atto del vedere.
«Il vuoto è una dimensione indispensabile nel mio lavoro. Cerco sempre di trovare all’interno dell’opera uno spazio per lo spettatore e il mio rigetto nei confronti dell’estetismo mi permette di trovarlo proprio nella costruzione di un vuoto potenziale, anche se questa elusione del visivo non la attribuisco a una sfiducia nell’atto di vedere. Anzi. Credo che l’arte debba però slegarsi da quell’intrattenimento percettivo a cui siamo sottoposti quotidianamente e su cui pone già le sue basi la mia ricerca, così da potersi trasformare in qualcosa d’altro, possibilmente il risultato di un’esperienza».
Con chi vorresti imbastire ora un progetto?
«Con Franco Noero e Paolo Zani, ma molto più che un progetto; un percorso».
Segnalami degli autori che ritieni importanti per il tuo lavoro e il motivo.
«Suzanne Collins per Hunger Games, Lena Dunham per Girls, Luigi Ghirri per la sua intera produzione, Spike Jonze per Her, M.I.A. per Arular, Cesare Pavese soprattutto per Il mestiere di vivere, J. D. Salinger per Il giovane Holden, Matt Stone e Trey Parker per South Park, Luigi Tenco per Vedrai vedrai. Il motivo è per tutti lo stesso: la loro grande attenzione verso il tempo presente».
Tu sei affascinata dal presente ma in che modo ritieni di poter costruire un futuro?
«Mi vien da pensare che prima di poter parlare di costruire si dovrebbero smantellare le speranze sul futuro remoto e da lì iniziare a lavorare su un concetto di futuro invece quanto più possibile prossimo al nostro presente».
Ora mi puoi consigliare tu qualche libro, film e/o luogo che ritieni possa essere utile per la mia ricerca?
«Un luogo: la pineta di Ravenna. Un libro: L’isola dei senza colore di Oliver Sacks. Un film: Persona di Ingmar Bergman».
Lia Cecchin è nata a Feltre (Belluno) il 21 luglio 1987. Vive e lavora a Torino.