Categorie: rubrica curatori

Allons Enfants/3

di - 7 Ottobre 2014
«L’éloignement des pays répare en quelque sorte à la trop grande proximité des temps»
«La distanza fra i paesi ripara in un certo modo alla troppo grande vicinanza dei tempi»
da Racine, seconda introduzione a Bejarzet (1672).
«Because I know that time is always time
And place is always and only place
And what is actual is actual only for one time
And only for one place».
«Perché ora so che il tempo è sempre il tempo
E che lo spazio è sempre ed è soltanto spazio
E che ciò che è reale lo è solo per un tempo
E solo per uno spazio»
da T. Eliot da Ash Wednsday (1930)
Le due citazioni provengono dal film Sans Soleil di Chris Marker

La tua formazione.
«Pur avendo seguito un iter formativo ortodosso ho sempre creduto di essere un artista, e non mi sono mai immaginata altro. Prima mi sono iscritta al Liceo artistico Boccioni, poi Brera e alla fine Paris 8 con il programma Erasmus, perché mi interessava il centro di ricerca su Deleuze. A Parigi ho frequentato poco ma ho cominciato a collaborare con il collettivo artistico ‘La Generale’. Nel 2007, quando li conobbi, erano in una fase di transizione fra spazi e legalità (sarebbero stati sfrattati dall’edificio occupato in Rue du Generale Lasalle a Belville) ma una volta ottenuti dei nuovi ambienti a Sevres dalla DRAC, mi invitarono a fare una residenza di tre mesi e finii per fermarmi più di tre anni. Sono partita poi per Los Angeles alla Mountain School of Art, una sorta di residenza gestita da Piero Golia, Eric Wesley and Richard Jackson e tornai due giorni prima della discussione della mia tesi a Brera con tre dita rotte».
E poi?
«Sono ritornata a Parigi alla Generale en Manufacture dove sono rimasta fino al 2010: lì ho fatto le mie prime esperienze di mostre, gestione di studi, collettivo, curatela. Nel 2009 ho cominciato un Master all’ Ecole d’Hautes Etudes en Science Sociales dove sono entrata nel dipartimento di Geografia con una proposta di ricerca sulle opere d’arte come spazio che non ho mai completato. Sono tornata a vivere a Milano nel 2010 dove ho conosciuto Haroon Mirza e ci siamo sposati dopo tre mesi. Da allora abbiamo sempre condiviso lo studio a Londra dove ora stiamo cercando di andare a vivere. Abbiamo un figlio di quasi due anni e una in arrivo la settimana prossima, ma prima disinstallerò il Degree Show del Master che ho appena terminato a Chelsea».

Se non sono indiscreto, che scambio si sviluppa quando si condivide una sfera sentimentale con un collega.
«Vi è molto sostegno e comprensione: il lavoro di Haroon mi piace ed è interessante per me osservare come lui opera. Come coppia è bello avere un’organizzazione del tempo similare e poter viaggiare insieme condividendo lo studio. Nonostante i nostri lavori sembrino formalmente molto diversi, abbiamo una visione dell’arte molto affine anche se finora non abbiamo mai fatto mostre insieme. Quando abbiamo lavorato in collaborazione si è spesso trattato di opere quasi intime, che regaliamo ad amici».
Quali sono le coordinate entro cui spazia la tua ricerca?
«Lo spazio geografico e l’idea di presenza hanno un ruolo molto importante e sono per me fondamentali per le mie ricerche. Di recente rifletto molto sul fatto che, nonostante i numerosi spostamenti dell’era contemporanea e l’immaterialità di Internet, le nostre vite sono definite da strutture architettoniche e da modalità sedentarie. Il mio lavoro vive di questa tensione, che cerca di conciliare il desiderio di trovare conforto e libertà in uno ‘stato di natura’ con sempre meno oggetti, con quello di creare arte, che è invece legato alla produzione di oggetti fisici, che entrano per default nel reame delle società urbane. Dedico molto tempo alla sperimentazione sui materiali, soprattutto atipici per ottenere i colori per i mei dipinti, come: meduse, frutta, verdura, sassi ecc. Considero la realizzazione di un dipinto come una performance e il risultato come uno sfondo per un’altra».

Vorrei che mi parlassi di un tuo lavoro recente.
«Nella mia ultima serie (Post or Meta, 2014) i personaggi sono delle persone che tentano, con più o meno successo, una re-integrazione delle loro attività nell’ambiente naturale. Ritraggono situazioni come una donna che partorisce in un fiume mentre viene filmata su di un i-pad, un uomo che compete con un uccello per mangiare un’arancia, una donna con una protesi alla gamba che raccoglie e consuma erbacce ecc. In questa serie propongo un’idea di primitivismo che non è ne spaziale né temporale, né specifica di una cultura distante: è piuttosto parte di ogni individuo e nutrita dalla situazione e sensibilità contemporanea».
Lo spettro dei tuoi interessi su quali piattaforme si espande?
«Leggo di tutto, guardo e ascolto cose molto diverse. Nell’ultimo anno i testi che mi hanno più influenzato sono stati They fuck you up di Oliver James (un testo divulgativo di psichiatria infantile) e Planet of Slums di Mike Davis (urbanistica). Fra i film sicuramente Gli Idioti di Lars Von Trier. Prima di venire a Londra ascoltavo sempre musica e radio in studio, ma ironicamente da quando vivo con Haroon molta meno (forse perché lui lavora con il suono). Nell’ultimo anno ho ascoltato con attenzione solo due album: Heroes Symphony di Philip Glass e la colonna sonora del film Drive. Le influenze artistiche comunque sono tante e mutevoli, continuano a cambiare: in questo momento rifletto su Tino Seghal, Sigmar Polke, Frida Kahlo, Chris Marker…».

Cosa ne pensi, Andrea, della tendenza recente della letteratura sull’arte contemporanea nel dare largo spazio alla parola dell’artista nelle interviste a scapito di una critica dell’arte basata sulle opere? Ti sentiresti a tuo agio a contraddire quello che vedo io in una mia opera in un tuo testo?
«In tutta franchezza non ho mai dato troppa importanza alle tendenze, e nello specifico alla parola dell’artista nella lettura di un’opera perché ritengo che non sia quella la matrice di interesse fondamentale nel nostro dialogo. Di certo un approccio fondante ma non esaustivo, per cui intervistare un autore mi da delle chiavi e degli strumenti di lettura che poi approfondisco in autonomia. Venendo alla critica che muovi, forse ci sono così tante parole perché non c’è il lavoro in molti sedicenti artisti… Io quando mi permetto di entrare nell’intimo dell’opera lo faccio con molto rispetto e sviluppo, argomentandole, le mie posizioni: l’artista solitamente mi ringrazia anche se inizialmente era in disaccordo».
Gaia Fugazza è nata a Milano, il 20 agosto 1985

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