“Il ragazzo, che cavalcava poco più avanti, stava in sella come ci fosse nato, e infatti era così, ma dava l’impressione che, se fosse nato in uno strano Paese privo di cavalli, avrebbe saputo scovarli ugualmente. Perché il mondo fosse a posto o perché lui fosse a posto nel mondo, si sarebbe accorto che mancava qualcosa e sarebbe andato in giro continuamente e dovunque finché non si fosse imbattuto in un cavallo, e allora avrebbe capito che il cavallo era e sarebbe sempre stato ciò che cercava.”
Cormac McCarthy, Cavalli selvaggi, 2008
“La doccia ha smesso di correre. Dopo un attimo ho sentito Herb fischiettare aprendo la porta del bagno. Ho continuato a guardare le donne accanto al tavolo. Terri stava ancora piangendo e Laura le carezzava i capelli. Sono tornato a guardare fuori dalla finestra. La striscia azzurra del cielo aveva ceduto e stava diventando scura come il resto. Ma erano apparse le stelle. Ho riconosciuto Venere e oltre, di lato, non altrettanto luminoso ma inconfondibile, laggiù sull’orizzonte, Marte. Il vento s’era rafforzato. Ne ho osservato gli effetti sui campi deserti. Irrazionalmente ho pensato che era un peccato che i McGinnis non tenessero più cavalli. Volevo immaginare cavalli in corsa attraverso quei campi nel crepuscolo, o magari anche fermi in piedi con le teste in varie direzioni, accanto alla staccionata. Sono rimasto alla finestra, in attesa. Sapevo che dovevo star lì fermo ancora per un po’, continuare a puntare lo sguardo là fuori, oltre la casa, fintanto che c’era ancora qualcosa da vedere.”
Raymond Carver, Principianti, 2009
“Dai, bella, – le disse tremando di rabbia, – dicci chi è stato”. Angela Vicario indugiò appena il tempo necessario per pronunciare il nome. Lo cercò nelle tenebre, lo trovò a prima vista tra i tanti e tanti nomi confondibili di questo mondo e dell’altro, e lo lasciò inchiodato alla parete con la sua freccia precisa, come una farfalla senza più scampo la cui sentenza stava scritta là da sempre. “Santiago Nasar”, disse”.
Gabriel Garcìa Marquez, Cronaca di una morte annunciata, 1999
Mi spiegheresti il motivo di tre scelte narrative?
«Scegliere un solo brano che, come dici tu, “sento mio”, è molto complesso e ho selezionato quindi tre testi, che fanno parte di quei libri che torno a rileggere quando sento il bisogno di trovare parole giuste per esprimermi. McCarthy, Carver e Márquez sono maestri della narrazione e riescono a creare un intero mondo di relazioni con poche frasi. È per me molto appagante cercare riparo o conferma nella loro letteratura perché hanno il dono di sintetizzare alcune fasi della mia pratica su cui non posso (o non voglio) soprassedere: la ricerca, la costanza e la precisione. Tre regole che sono diventate una consuetudine e hanno contribuito a plasmare un metodo per arrivare al progetto compiuto».
Ricerca, costanza, precisione: quest’ultimo termine non credi che possa essere anche un limite per la sperimentazione che prevede invece anche una incoerenza rispetto alle proprie posizioni?
«Precisione non equivale solo a coerenza: dal mio punto di vista il percorso di un artista è in continua evoluzione e dall’inizio alla fine ci si trova costantemente a mettere in discussione le proprie decisioni. Ogni scelta è un conflitto ed è proprio da quelle magari più improbabili che nascono le sperimentazioni più interessanti, anche se il lavoro non è solo questo. La precisione sta nel mettere a punto i risultati delle sperimentazioni e delle invenzioni, nel saperle poi proporre ad un pubblico».
Il tuo approccio metodologico teorico in che modo si incrocia con la tua esperienza e il tuo “personale”?
«I miei lavori nascono spesso da un incontro fortuito con un luogo o uno spazio in cui mi sono imbattuta: mi capita però di accorgermi, quando il progetto è ultimato, che quello spazio o situazione iniziale è sì qualcosa che ho ricercato a lungo, ma soprattutto è qualcosa che in fondo ha sempre fatto parte del mio mondo, della mia ricerca, della mia pratica. Questi luoghi, vedi i miei ultimi lavori come l’installazione sui vulcani attivi italiani o L’orizzonte degli eventi, LP, sono il pretesto per attivare riflessioni su alcuni temi cari, che vanno dalle modalità del comportamento umano, le sue capacità e responsabilità derivate da una determinata condizione, ambientale o sociale, fino alle caratteristiche dei processi naturali. Processi geodinamici come le frane o la formazione dei vulcani, manifestazioni tipiche del territorio italiano, divengono occasione di riflessione sull’agire artistico. Ogni lavoro nasce quindi dall’analisi di un ‘paesaggio’, vicino alla scuola fotografica italiana di Luigi Ghirri e Guido Guidi: da loro ho imparato a saper osservare, ed è un passo che compio per interrogarmi sulle forze che governano il visibile. È forse per questo che la fotografia è il mezzo che ho sempre privilegiato per affrontare certi argomenti».
L’analisi del paesaggio come indagine del tuo invisibile.
«Ogni oggetto, ogni luogo, nasconde qualcosa: nelle sue geometrie, nell’intersecarsi dei piani, nella stratificazione storica e culturale. Attraverso le mie installazioni provo a portare in evidenza alcuni di questi piccoli dettagli. Riempiendo il vuoto che c’è fra il mio occhio e la mia mano; dando forma ad un universo inesistente in cui tutto quello che è il mio immaginario può diventare reale anche se volontariamente ambiguo».
Il rapporto aperto fra scultura e fotografia in che modo avviene?
«La scultura è parte della mia ricerca insieme alla fotografia ormai da qualche anno anche se la tridimensionalità installativa ha sempre fatto parte delle immagini che creavo. Ad esempio il lavoro Osservando l’oscurità che i ciechi vedono è uno studio sulla percezione composto da sei fotografie. La serie parla del binomio cecità/vista, ma attiva anche una riflessione sulla fruizione dell’opera d’arte affrontando l’argomento della comprensione dell’arte da parte dei vedenti e dei non vedenti. Il soggetto fotografato è una scultura in gesso che rappresenta Agar e Ismaele: Ismaele guarda lo spettatore come osservava me mentre lo fotografavo, con i suoi occhi di statua ciechi. Senza la sua presenza fisica all’interno di un museo, la serie fotografica non avrebbe senso di esistere. Composizione, materia, dinamismo, peso, sono elementi chiave della pratica scultorea che con l’istantaneità della fotografia partecipano alla creazione di una nuova visione d’insieme. Lavorare con due media così diversi mi permette di creare nessi di senso proprio nello scarto che c’è fra le specifiche dell’uno e dell’altro».
Un immaginario che proviene da lontano, che si nutre di stratificazioni culturali.
«Sono d’accordo: molti artisti hanno lavorato e lavorano tutt’ora combinando scultura e fotografia. Seppure apprezzi Bernd e Hilla Becher, è la coppia Fischli e Weiss che più sento vicina. Amo il loro lavoro: da Der Lauf der Dinge (1987), alla serie Stiller Nachmittag (1985) e Wurstserie (1979). Mi colpisce l’apparente semplicità che utilizzano ogni volta e l’irriverenza con cui hanno stravolto le “regole” dell’arte. La loro ironia è geniale, talmente forte da diventare a volte drammatica. Pochi artisti mi fanno quest’effetto».
Mi puoi parlare della tua formazione?
«Dall’Istituto d’arte di Macerata sono passata a Venezia dove ho frequentato la Facoltà di Arti e Design allo IUAV e successivamente la facoltà di Storia dell’Arte all’Università Ca’ Foscari, per approdare infine al Master di Alta Formazione sull’Immagine Contemporanea promosso da Fondazione Fotografia Modena. Mia madre non smette mai di ricordare uno dei miei primi temi svolti alla scuola elementare dal titolo Cosa farai da grande, dove l’essere artista sembrava cosa predestinata. Allo IUAV ho frequentato corsi con Guido Guidi, Adrian Paci e Alberto Garutti e molti altri artisti che continuo a stimare. A Modena in seguito ho conosciuto Fatma Bucak, Niklas Goldbach, Kirk Palmer, artisti molto giovani ma con pratiche consolidate. È stato bello lavorare con loro».
Quali sono gli artisti cui trai riferimento e che stimi?
«Oltre ai già citati Fischli e Weiss, ammiro l’opera di Gerhard Richter e Thomas Ruff, anche per l’utilizzo che fanno del mezzo fotografico. Un altro artista che stimo è Alighiero Boetti: nei miei sogni di collezionista mi piacerebbe poter iniziare con la sua Gemelli (1968), dichiarazione del dualismo della sua identità. Proseguendo, aggiungerei William Eggleston, con tutte le sue fotografie, mentre da Paul Graham vorrei essere stata ritratta per End of an age (1996 – 1998). Non ultima Anne Hardy: mi sono piaciuti fin da subito gli scatti dei set costruiti all’interno del suo studio di Londra, ma è stato quando ho iniziato a lavorare al mio lavoro L’orizzonte degli eventi che ho capito davvero la forza che sta nell’utilizzo di oggetti e luoghi che hanno perso la loro funzione originale, per generare, all’interno dell’immagine osservata, un significato narrativo».
Andrea, cosa ne pensi del prolificare di concorsi e premi a pagamento per artisti. La promozione da parte di istituzioni e la partecipazione degli addetti ai lavori a questo genere di iniziative può effettivamente favorire gli artisti? E non pensi sia paradossale che in Italia il sistema dell’arte debba essere sovvenzionato dagli artisti stessi?
«In linea teorica non sono d’accordo con questa prassi, ma guardo pragmaticamente ai dati positivi che questo fenomeno comporta e, vista l’assenza istituzionale per i problemi economici che conosciamo, non vedo al momento alternative promozionali. Premesso inoltre che per l’artista la libertà creativa deve essere primaria; preferisco comunque una ‘contraddizione in termini’ che dia libertà di scelta, piuttosto che un’imposizione di gusto, rispondente ad una precisa strategia operata da fondazioni o gallerie impositive. Per assurdo la rete di premi è “democratica”, parte dal basso, e, proprio per il coinvolgimento di operatori qualificati, garantisce una opportunità impensabile in altri contesti».
Paola Pasquaretta è nata il 24 novembre 1987 a San Severino Marche (MC)
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Complimenti ad Andrea Bruciati per l'interessante rubrica. L'iniziativa mi sembra lodevole perché rappresenta un valido strumento per approfondire la conoscenza dei percorsi di ricerca di alcuni promettenti giovani artisti e nello stesso tempo uno stimolo al confronto e alla riflessione, indispensabili ingredienti per la maturazione e la crescita artistica.