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11
luglio 2018
Curatorial Practices
rubrica curatori
Liberare l’espressione artistica. Una conversazione con Marc Zegans
di Camilla Boemio
di Camilla Boemio
Si avvicinano le tanto agognate vacanze d’estate, ma il sistema del’arte andrà in vacanza? Cosa succede quando la creatività viene meno? L’ispirazione è latente, ci sentiamo in balia della crisi. Una conversazione con Marc Zegans pottrebbe essere l’inizio di una fase risolutiva.
Sei sempre stato particolarmente interessato alle varie forme della partecipazione politica. Prima di iniziare il tuo lavoro con gli artisti, hai trascorso quasi un decennio lavorando a Cambridge alla Harvard Kennedy School. Potresti parlarcene, per favore?
«Il mio interesse primario è sempre stato quello di liberare l’espressione, e, di conseguenza, di stabilire le condizioni in cui la creatività possa prosperare. Le persone che lavorano nel governo sono in grado di apportare immensi contributi fecondi per la crescita della società, e in effetti hanno contribuito agli enormi miglioramenti della salute pubblica, dei diritti umani e negli altri campi di attività comune, ma sono stati ampiamente limitati nella azione costruttiva dai sistemi che li ostacolano nelle loro opportunità, lasciando il pubblico non informato sulle loro attuazioni. Negli ultimi anni negli Stati Uniti, abbiamo assistito a uno sforzo concertato e strettamente orchestrato da parte dei repubblicani nel svalutare e minare sistematicamente la competenza, la conoscenza, il metodo scientifico e la pratica, insieme all’espansione dell’espressione umana attraverso le arti. Le due fasi principali della mia carriera, insegnare e incoraggiare l’innovazione nella sfera pubblica e aiutare gli artisti a prosperare e diventare brillanti – sono stati semplicemente diversi veicoli per raggiungere lo stesso fine fondamentale, consentire a quante più persone possibile di condurre le loro vite artistiche ricche e appaganti, realizzando delle opere a beneficio di tutti noi».
Siamo in uno stato di obsolescenza programmata: l’arma definitiva del consumismo inghiotte anche il sistema dell’arte. Un’economia predatrice, in cui le famose parole di Serge Latoche risuonano come una sorta di domanda perpetua: dove stiamo andando?
«Sì, c’è una grande ironia nella sovversione dei metodi accettati nell’osservare e nel coinvolgere il mondo, prima la cultura era guidata delle sub-culture avanguardiste e bohemien, fino a essere stata superata dall’innovazione programmatica dall’impresa perseguita dal settore privato. Il cambiamento è avvenuto con l’introduzione della teoria di Joseph Schumpeter secondo cui l’impresa capitalista sarebbe stata rinnovata, se non addirittura rivoluzionata, da “tempeste di distruzione creativa” attraverso il processo di innovazione (Capitalismo, socialismo e democrazia, 1942). Negli ultimi anni questa idea e le pratiche da essa generate si sono trasformate in una religione laica attraverso “l’innovazione dirompente” proposta da Clayton Christensen. Sulla scia di un tale spostamento della pratica aziendale, in cui non solo i prodotti ma anche le industrie che li hanno generati sono costantemente resi obsoleti; il ruolo dell’artista come innovatore, osservatore e critico diventa indubbiamente marginale. La riduzione dell’arte a un hipster chic, come sottolinea Alan Liu dell’UCLA nel suo meraviglioso libro, Laws of the Cool, è profondamente insoddisfacente e banale. Il ruolo dell’artista non è semplicemente quello di mediare, ma di coltivare, creare, dimostrare e rendere possibile la pienezza della vita in questo mondo in costante sconvolgimento e transizione. Ecco perché per me la pratica dell’arte nella sua forma più profonda è inevitabilmente intrecciata con la sfera personale, l’ambito politico e quello spirituale. Abbiamo una profonda responsabilità».
Maria Antonietta Scarpari, “Honey money Italy”, 2016, cm 150 x 226, collage of similar dollars, mosaic technique of dollars on cardboard and gold foil, prototype, and “Tappeto Volante”, 2018, collage of similar dollars, “Fragments,” a group show highlighting Italian artists at Durden and Ray in Los Angeles, April 2018.
Puoi introdurci il tuo saggio “Overcoming Crises of Creative Identity: The Art of Reimagining Your Deepest Creative Self”’? Ovviamente ci preme capire come potere superare la crisi.
«Nel corso degli anni mentre lavoravo con artisti (e altre persone che conducevano vite inventive), ho capito che l’arco di una vita creativa soddisfacente segue un percorso in costante evoluzione. L’identità creativa assunta o creata da un individuo verrà periodicamente messa in discussione. Questa fase potrebbe accadere per una serie di motivi: l’artista potrebbe aver esaurito le sue fonti di ispirazione; possono evolvere i modi che richiedono un cambiamento dell’identità; l’artista potrebbe subire uno spostamento di interesse che lo porta da un processo produttivo privato a un periodo di intenso impegno sociale. In ognuno di questi momenti, l’individuo viene rigettato in una stasi nella quale si domanda chi è, cosa fa e se la sua grammatica, il vocabolario che forma il suo vocabolario di pratica, siano ancora adeguati ai suoi bisogni e all’incontro nello sviluppo e nella sfida che deve affrontare. Per progredire fruttuosamente nella vita artistica, un artista, o qualsiasi individuo motivato creativamente, dovrà trovare il coraggio e i mezzi per saltare in un’identità nuova, più ricca, più evoluta; un atto che Susan Rubin Suleiman descrive memorabilmente come “risking who one is,” sviluppando un concetto di sé, un linguaggio di pratica e un insieme di metodi adeguati al nuovo compito. Fortunatamente le crisi seguono cicli prevedibili, possiamo così portare il metodo a sopportare ogni transizione nel modo nel quale il Tibetan Book of the Dead fornisce un valido insegnamento alla transizione dalle nostre vite attuali. Il mio saggio discute i particolari delle crisi nel corso della vita artistica e come possiamo coinvolgere le varie fasi rendendole proficue».
La fase di crisi positiva prospetta l’occasione per riformulare un nuovo linguaggio e pratiche adeguate al nostro bisogno di produrre un lavoro che abbia un significato, una risonanza e un valore duraturo. Puoi dirci di più sul processo?
«Possiamo pensare alla nostra vita artistica suddivisa approssimativamente in due tipi di esperienze, gli stadi principali caratterizzati dalla produzione costante, la produzione cumulativa e il raffinamento del nostro lavoro, e i periodi di forte cambiamento disgiuntivo in cui potremmo smettere di lavorare o quano il nostro lavoro è caratterizzato da incoerenze ed esperimenti non sistematici. Questo passaggio è inevitabile, perché durante questi periodi siamo impegnati nella transizione metamorfica da una versione di chi siamo a quella successiva. La domanda in questione è se progrediremo saggiamente e bene, e cosa ci vorrà per farlo? Riunire positivamente la crisi inizia con il riconoscere che abbiamo degli obiettivi contrastanti in gioco – un insieme di finalità basate sul modo in cui conosciamo noi stessi (e il mondo), e un insieme di mete (inizialmente incoerenti) che affermano una rivendicazione su chi diventeremo e come incontreremo il mondo. Un secondo passo è quello di portare la definizione del conflitto, spostandolo verso le proprie sollecitazioni, insoddisfazioni, confusioni, paure, desideri e ambivalenze dal tacito regno all’esplicito. Così localizzato, si sposta da una condizione di angoscia a un problema suscettibile di soluzione pratica».
Boy Sue, Fratture senza rumore, performance, 2016, photo Giulio Lacchini, “Fragments,” a group show highlighting Italian artists at Durden and Ray in Los Angeles” liuto, , “Fragments,” a group show highlighting Italian artists at Durden and Ray in Los Angeles, April 2018.
Nell’arte contemporanea non c’è solo il completamento positivo di un ciclo di sviluppo, in agguato la competizione e un metabolismo innescante rendono gli artisti o i curatori ingranaggi del sistema capitalista. Come ho spiegato nel mio saggio “Aphasia Of Doubt: The Unknowable Reality”. Cosa ne pensi?
«Nel tuo saggio, citi l’osservazione di Giorgio Agamben che evidenzia “il compito dell’autore di restituire al mondo la sua lingua”. Questo secondo me è il progetto centrale delle arti di questa generazione. Si manifesta in diversi modi, in primo luogo creando il significato attraverso un’azione concreta e tangibile».
Come siamo arrivati qui e dove andremo? Koolhaas spiega che insieme ai tre componenti di “Fundamentals” si debba eseguire un “audit” in architettura ma anche in economia c’è una verifica dei dati così anche nell’arte possiamo addentrarci chiedendoci: “Che cosa abbiamo? Come siamo arrivati qui? Cosa possiamo fare e dove andremo?” suggerendo di aver raggiunto un momento in cui è necessaria una rivalutazione.
«Ascoltando la tua domanda finale, ho avuto un momento nel quale ho pensato ai Talking Heads, basta ascoltare David Byrne in Once in a Lifetime: “E potresti chiederti:” Bene, come sono arrivato qui?” I dettagli di ogni risposta a questa domanda sono necessariamente individuali, ma elaborando i particolari, ritorno ai temi principali della nostra conversazione: muoviti verso il significato, muoviti verso il cuore, muoviti verso scelte che portano soddisfazione e scatena la compassione e la creatività. Tu e noi saremo felici che tu l’abbia fatto».
Camilla Boemio