20 giugno 2017

CURATORIAL PRACTICES

 
Dal Van Abbemuseum di Eindhoven incontro con Steven ten Thije. Per un museo che sia parte della “res publica”
di Camilla Boemio

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Steven ten Thije è curatore della sezione dedicata alla ricerca del Van Abbemuseum, di Eindhoven. Attualmente è lo chief curator del progetto “The Uses of Art – The Legacy of 1848 and 1989”; un programma di cinque anni finanziato della Confederazione Europea dei musei (www.internationaleonline.org).
Cosa hanno realizzato le istituzioni per soddisfare le esigenze di un pubblico sempre più esigente? Quali sono le tue preferenze metodologie e i modelli utilizzati dalle istituzioni? Puoi darci degli esempi virtuosi in Olanda?
«Dipende da quello che intendi per “pubblico esigente”. Da un lato il pubblico sembra molto soddisfatto di ciò che offrono i musei. Negli ultimi anni, nei Paesi Bassi, si registra un costante aumento delle frequenze, in particolare dopo la riapertura del Rijksmuseum e dello Stedelijk Museum di Amsterdam. Eppure, allo stesso tempo, è contestata la posizione delle istituzioni d’arte.
Nel 2011 e nel 2012, il governo nazionale per la prima volta, dalla Seconda Guerra Mondiale, ha optato per dei tagli nel bilancio della cultura e questo ha messo il settore in una grave crisi. Oltre a tutte le difficoltà finanziarie che ne sono derivate, il fatto ha segnato un cambiamento nella mentalità in cui l’arte e la cultura sono state considerate non più una componente naturale del dominio pubblico. L’arte è considerata intrattenimento intellettuale o intrattenimento serio, per cui il parametro di misura è la soddisfazione individuale. Il contesto indubbiamente si è trasformato, rendendo molto complesso il lavoro e molte istituzioni, tra le quali il Van Abbemuseum, stanno esplorando le possibilità di riposizionarsi. Tuttavia, la mia percezione è che la maggior parte delle istituzioni si concentri sulla produzione di un programma attraente per il suo pubblico attraverso mezzi piuttosto tradizionali. Non c’è niente di sbagliato, ma se mi chiedi chi stia facendo qualcosa fuori dall’ordinario, non mi vengono in mente molti programmi lodevoli. Un elemento che ritengo interessante è offerto dal nuovo direttore dello Stedelijk Museum Schiedam, Deidre Carasso che lavora un giorno alla settimana nelle gallerie ed è disponibile per le discussioni con il pubblico. Altre strategie ancora precedenti sono per esempio il progetto del Gemeente museum per permettere ai giovani artisti di realizzare piccole mostre nel seminterrato. Il Van Abbemuseum ha realizzato un altro progetto, chiamato “Do-It-Yourself-Archive”, in cui gruppi o semplicemente membri individuali del pubblico possono realizzare piccole mostre con una parte della collezione permanente. Abbiamo anche una vasta gamma di programmi per connettersi a diverse comunità. Particolarmente importante è il nostro programma speciale per gli ospiti, che si concentra sulle persone con disabilità o il Queering the Museum, realizzato in collaborazione con altri musei. L’obiettivo principale è quello di coinvolgere attivamente i gruppi di persone nella pratica museale. Ciò consente di includere nel museo l’esperienza di persone con formazioni cultuali differenti, rendendo sempre chiaro alle persone che queste istituzioni sono lì per servirli. Nelle società profondamente individualiste, come i Paesi Bassi, non è così facile da realizzare; ma diventa un obiettivo primario».
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Quali sono i maggiori problemi nel campo dell’arte?
«I problemi sono sempre gli stessi. I Paesi Bassi, come la maggior parte delle società Europee, sono profondamente polarizzate, con una tensione perpetua tra i diversi gruppi sociali. Al centro di questo, ovviamente, ci sono tutte le difficoltà geopolitiche, come la crisi bancaria, i rifugiati, i cambiamenti climatici, e in parte conseguenza del passato, l’accensione verso forme autoritarie di politica. Si aggiunge il ruolo dei media sociali, intensificatori di divisione sociale. Mi sembra che ci siano meno posti dove le persone di diverse credenze e di diverse formazioni si possano incontrare e trovare punti di scambio. Questo credo abbia profondi effetti sulla posizione dell’arte nella società. Se le istituzioni d’arte non assumono un ruolo più attivo nelle funzione permanente di luogo di incontro, rischiano di diventare ghetti di comunità esclusive di una società fortemente sbilanciata e conflittuale. Per me la sfida principale dell’arte dovrebbe essere articolata al contributo per una ristrutturazione e per una rivitalizzazione della società civile. L’arte nelle società moderne è sempre stata parte di questo ampio terreno civico, preparando il pensiero alla politica. Continuare a rimanere parte di questo dominio civile richiederà un’innovazione nel settore e la costruzione di nuove alleanze. Idealmente, questo sarebbe anche un’ideale sviluppo europeo, anche se sarà una sfida enorme condotta contro le maree. Se riusciremo a costruire una nuova infrastruttura civile attraverso la quale le differenze sociali potranno essere negoziate in modo pacifico, avremo vinto la grande prova di questa generazione». 
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Come la tua pratica curatoriale ritieni sia cambiata e si sia orientata negli ultimi anni?
«Ciò che trovo particolarmente interessante da osservare è l’interruttore verso quello che potresti chiamare la “curatela estesa”. Con questo mi riferisco ad un atteggiamento che non si concentra così tanto sulla mostra come tale, ma considera più il momento della mostra come parte organica delle varie serie di attività in cui un’istituzione è impegnata a servire la sua comunità. Un esempio importante è il MIMA di Middleborough, con l’arrivo del suo nuovo direttore Alistair Hudson. Costruiscono la loro programmazione su scambi estesi con la comunità intrecciando le più ampie tendenze artistiche con una riflessione intensa sulla posizione nel mondo di oggi. La programmazione di MIMA può essere vista come parte di un piccolo movimento di istituzioni, di cui fa parte anche Van Abbemuseum. Ancora una volta l’obiettivo principale è quello di concentrarsi sulle dinamiche sociali e cercare di comprendere come nelle diverse collettività possono formarsi rapporti significativi con le istituzioni. Ciò provoca spesso forme di comune creazione o di comune design, ma può anche significare includere il pubblico in una capacità più commissionale coinvolgendo tutti i membri nel processo di selezione dei progetti da realizzare. Ciò che forse è la tendenza più significativa è che questi modelli curatoriali rompono la pratica “standard” di realizzare mostre per un pubblico. Queste nuove strategie riconoscono, introducono e coinvolgono un’audience più ampia. Ritengo sia un interessante sviluppo, soprattutto alla luce della fragilità della società civile».
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Sono rimasta molto colpita dal dinamismo intellettuale di Eindhoven, avendo partecipato solo qualche settimana fa, con una lecture ad Economia Festival. L’Olanda, rispetto l’Italia, mette comunque l’arte e la cultura contemporanea al centro della ricerca, in modo costante. Potresti descriverci  “The Autonomy Project”?
«”The Autonomy Project” è stato un percorso realizzato intorno al 2011. In un certo senso è finito, anche se non si è mai ufficialmente concluso. Ci sarà ancora una conferenza quest’anno, ed ho la speranza sia il momento per riprenderlo. L’evento più eclatante di “The Autonomy Project” è stato un simposio nell’Ottobre del 2011, che ha visto tra le tante partecipazioni: Jacques Rancière, Franco ‘Bifo’ Berardi, Hito Steyerl, Rossella Biscotti, Thomas Hirschhorn, Tania Bruguera, Isabell Lorey, Gerald Raunig e Peter Osborne. Il gruppo che ha organizzato “The Autonomy Project” era numeroso e includeva: l’Università di Amsterdam, la Free University di Amsterdam, il Dutch Art Institute (DAI), la ArtEZ di Arnhem, la Liverpool John Moores University, la Hildesheim University di Hildesheim, la Melbourne University; e naturalmente il Van Abbemuseum. Il progetto di autonomia si è svolto in un momento storico complesso nei Paesi Bassi, poiché pochi mesi dopo, il governo Olandese aveva annunciato che avrebbe tagliato in modo sostanziale il budget per la cultura. Questo ha creato una dinamica inedita  intorno al simposio, in quanto l’autonomia delle arti apparve davanti ai nostri occhi. Tuttavia, il nostro rapporto con la nozione di autonomia era profondamente in conflitto. Il vero inizio del “The Autonomy Project” nasce in un momento precedente, credo intorno al 2005. Annie Fletcher, capo curatore del Van Abbemuseum, era stata coinvolta in un dibattito che rifletteva sull’arte e sulla democrazia. In una sessione di valutazione dopo quel gruppo iniziale, Charles Esche, John Byrne (LJMU) e altri hanno avuto delle discussioni sulla posizione dell’arte nella società e sul circolo sinistro che rappresentavano le categorie dell’autonomia. Tuttavia, durante la discussione, hanno notato che non potevano fare a meno di tornare ad essa, trovandosi sempre, in un elemento fondamentale di ciò che era necessario per le basi di un’arte critica e progressista. Fu il risultato di quelle conversazioni che mi spinse, quando sono entrato nel museo nel 2006 ed ho incontrato John Byrne, a prendere questa ricerca in modo rigoroso. Parlando di più del contenuto e sulla prospettiva dell’autonomia che si è sviluppata, la più grande realizzazione è considerare l’autonomia non una qualità di un’istituzione o di un lavoro, ma una particolare possibilità relazionale. L’autonomia non è qualcosa di statico, si sviluppa nella fragile reciprocità che può verificarsi tra qualcuno che fa una richiesta e qualcuno altro che ascolta. L’autonomia per me rappresenta quel momento in cui qualcuno formula qualcosa che si basa su una serie di esperienze che producono teorie in qualche modo incomprensibili, attivando comunque un nesso e forgiando delle basi. Questa affermazione coerente, ma misteriosa, può quindi essere testata e analizzata da un altro, o nuovamente dal teorico iniziale, e quindi può produrre una nuova calibrazione della logica. È così che entriamo in dialogo con la “Ridistribuzione del sensibile di Rancière».
Camilla Boemio

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