07 ottobre 2017

CURATORIAL PRACTICES

 
Quando un'opera d'arte è “populista”? Intervisa a Marco Baravalle
di Camilla Boemio

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Dopo la pausa estiva eccomi nuovamente ad analizzare le pratiche curatoriali, e a creare nuove conversazioni che possano essere momenti di riflessione per estendere il dibattito a tematiche portanti sviluppate da teorici, curatori, filosofi ed artisti. 
Riprendo la rubrica con Marco Baravalle, figura centrale di S.a.L.E. Docks, spazio “attivista” per le arti di Venezia. Fondato nel 2007 grazie ad un’occupazione, la sua programmazione comprende progetti curatoriali, attività di inchiesta e azioni. Baravalle è anche assegnista di ricerca presso l’Università Ca ‘Foscari. Tra i suoi temi di ricerca: l’arte e l’attivismo, il lavoro creativo, la gentrificazione e il posizionramento dell’arte nell’ambito dell’economia neoliberista
La lecture che terrai per E-Flux a New York, tratterà di: “Art, Populism, and the Alterinstitutional Turn”. Potresti anticiparci cosa significa populismo quando è legato ad un’opera d’arte?
«Il punto di partenza per la mia conferenza ad E-Flux è un articolo pubblicato qualche mese fa in Italia. Lì tentavo di riprendere la griglia interpretativa creata da Alberto Asor Rosa nel suo famoso libro “Scrittori e Popolo”. Semplificando brutalmente l’autore individuava come filone egemone della letteratura italiana quello che, in particolare a partire dal secondo dopoguerra in poi, aveva assecondato le indicazioni del Partito Comunista e aveva applicato in chiave triviale la lezione gramsciana del “nazional popolare”. Il protagonista di questa galassia letteraria era appunto il popolo. Secondo Asor Rosa esso finiva per rappresentare un dispositivo culturale che frenava il potenziale rivoluzionario della categoria di classe. Popolo contro classe, questo era il confronto e andava inserito in un dibattito “a sinistra” tra le correnti maggioritarie del PC e gli intellettuali operaisti, intellettuali che in principio proponevano una radicale rottura teorico-culturale. Per me Asor Rosa rappresenta un punto di partenza poiché ha definito il termine populismo in relazione ad un ambito culturale (quello della letteratura italiana). È chiaro che poi ho dovuto immaginare l’applicazione della sua griglia in relazione non a opere letterarie, ma appartenenti all’ambito delle arti visive. Ho altresì dovuto tenere conto della distanza temporale, il mondo in cui nasceva “Scrittori e popolo” non esiste più, ma il termine populismo è tornato di attualità, se ne dibatte a destra e sinistra. Ci hanno insegnato che si tratta di un “significante vuoto”; quello che mi interessava era cominciare a riempire questo vuoto (magari con un pizzico di sistematicità) anche in riferimento all’arte contemporanea. Quando un’opera è populista? Cosa significa? Non credo di avere risolto la questione, ma per le prime risposte rimando all’articolo e poi alla conferenza che presenterà alcuni sviluppi ulteriori (so che sarà in diretta streaming e immagino che successivamente il video venga messo a disposizione). Il termine “alteristituzionale” che viene citato nel titolo, lo uso per descrivere una tensione, riscontrabile in alcune pratiche, utile a superare la dicotomia tra populismo e istituzionalismo». 

David Goldenberg, Delivering Obsolescence: Art Bank, Data Bank, Food Bank, dettagli installazione site-specif, Odessa Municipal Museum of Personal Collections A. Bleshchunov, 5th Odessa Biennale of Contemporary Art 2017, fotografia realizzata da Christopher Pugmire

Secondo te, c’è una relazione problematica tra le diverse forme di pratica artistica e attivistica?
«Dipende da cosa intendiamo quando usiamo questi termini, se per arte intendiamo “il sistema dell’arte” allora vi è un’infinità di problemi: dalla vicinanza sempre più stretta tra arte e finanza, passando per le operazioni di “cattura” e di normalizzazione che l’istituzione arte opera su pratiche, immaginari e pensieri critici, fino alla riproposizione delle vecchia categoria dell’artista, prima declinata come genio, oggi come imprenditore del sé. Se invece riconoscessimo la potenza della creazione sociale, non la soffocassimo economicamente e non la dequalificassimo culturalmente, l’arte potrebbe allora diventare una delle forme più efficaci di attivismo». 
Qual è secondo te lo stato dell’arte? In Italia?
«Non lo so, nonostante qualche incursione nel mondo dell’arte, rimango piuttosto un outsider. La mia esperienza l’ho maturata quasi tutta all’interno di un collettivo e di uno spazio di movimento, S.a.L.E.-Docks a Venezia. Certo ho collaborato e collaboro con alcuni artisti, curatori o studiosi, conosco piuttosto bene la situazione veneziana, ma non ho il polso dello stato dell’arte in Italia, non frequento molte gallerie, fiere o eventi. Per qualche ragione, se pensiamo al “mondo dell’arte”, ho sviluppato relazioni più solide all’estero, con gli Stati Uniti, la Spagna o la Polonia, ad esempio». 
Siamo in fase di una ascesa conservatrice che sta oscurando e boicottando la cultura. Cosa possono fare i curatori, gli intellettuali all’interno delle istituzioni e all’esterno, in risposta al cambiamento radicale che sta alterando le nostre possibilità come individui, cittadini, artisti, pensatori e produttori di una cultura liberale? Cosa si deve fare in termini di resistenza? 
«Dipende dai problemi che ci si trova davanti e dalla posizione da cui si parla. Ci troviamo di fronte una fascistizzazione delle istituzioni artistiche, una moltiplicazione dei casi di censura? Oppure dobbiamo piuttosto affrontare una situazione di carattere governamentale, dove la radicalità culturale (ammesso che sia una nostra priorità) viene assorbita, lusingata e poi resa innocua? Oppure, ancora, ci adattiamo ad intendere l’arte esclusivamente come frutto di una supposta meritocrazia di mercato, mentre il sistema è retto da una massa invisibile di creatori-consumatori, di pubblici precarizzati? Noi, ad esempio, abbiamo recentemente tentato di ingaggiare un corpo a corpo con queste domande attraverso un progetto del S.a.L.E. intitolato “Dark Matter Games”, di cui è in procinto di uscita anche una pubblicazione». 

David Goldenberg, Delivering Obsolescence: Art Bank, Data Bank, Food Bank, dettagli installazione site-specif, Odessa Municipal Museum of Personal Collections A. Bleshchunov, 5th Odessa Biennale of Contemporary Art 2017, fotografia realizzata da Christopher Pugmire

Quali alternative possono essere avviate per creare quel contesto di “alter istituzionale” che tu citi?
«Non adattarsi mai completamente ai circuiti, alle richieste istituzionali, ingaggiare con questi una sfida, portare all’interno altri punti di vista teorici, diffondere un’idea diversa di arte che non ricada nei ruoli e nei dispositivi egemoni (non accontentarsi di provare a fare l’artista o il curatore, di lavorare nella galleria o nel museo). Al tempo stesso bisogna costruire autonomia, immaginare e mettere in pratica modelli alternativi di produzione e di gestione, fare balenare nuove opzioni soggettive per artisti e lavoratori culturali, scoprire o riscoprire scopi per l’arte diversi da quelli previsti dalla logica neoliberale. È difficile, ma è possibile, la nostra esperienza seppure lontana dalla perfezione, lo prova. Il S.a.L.E. ha dieci anni, è nato e vive grazie al suo inserimento in una rete di movimento (che mette insieme esperienze extra artistiche come centri sociali, spazi studenteschi e comitati ambientalisti), non riproduce le logiche economico-sociali alla base dell’attività delle altre istituzioni culturali cittadine. Non funziona secondo le stesse logiche economiche, non è un agente di precarizzazione di gentrificazione, non deve lottare all’interno dell’economia dell’evento (anche se certamente deve fare i conti con la scarsità di attenzione). È un’alter-istituzione fragile, ma anche aperta e organizzata secondo una logica assembleare, prende seriamente il rapporto con il contesto, con la città e con i suoi problemi. Ripeto, i limiti sono molti, ma è possibile essere diversi senza essere condannati alla marginalità». 
Come si forma la memoria del passato, ispirando il futuro della res publica?
«La memoria è un terreno di contesa, la futura res publica avrà probabilmente la forma che saprà meglio riattivare (e non solo celebrare) la propria memoria. Questo tempo della crisi è un tempo in cui la retorica della memoria condivisa non funziona più, dobbiamo fare i conti con una memoria sempre più polarizzata». 
Camilla Boemio

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