Marco, in che modo costituisci un’altra metà dell’arte?
«Io sono un produttore di video; la mia esperienza nel mondo lavorativo è cominciata alcuni anni fa nell’ambito del video commerciale, prima ancora che artistico. Tuttavia, spesso alcuni artisti mi hanno chiamato al loro fianco per delle collaborazioni».
Quindi anche tu sei anche un artista?
«Sì, sono anche un artista. Non a caso il mezzo di espressione che prediligo è il video, anche se in realtà non amo parlare di tecniche quando mi presento come artista, perché il mezzo che uso viene di conseguenza al progetto. Come dicevo, la mia esperienza è nata in ambito commerciale, poi ho cercato di applicare nel campo artistico tutto il know how che ho acquisito e che ancora sto acquisendo. Video a parte, ultimamente sto lavorando a delle scansioni di piccoli corpi organici».
Torniamo alle collaborazioni, con chi hai lavorato?
«Le collaborazioni che ho attivato fino ad ora riguardano il progetto contemporary locus, per cui mi è stato chiesto di realizzare dei video documentativi di alcuni luoghi storici di Bergamo in cui sono state installate opere d’arte contemporanea. In questo caso non ci sono state rigide linee guida da seguire e ho avuto libertà d’azione. Il risultato ha sempre denotato un mio punto di vista soggettivo e critico sul progetto caratterizzato dalle scelte in fase di produzione e postproduzione e dalla volontà di restituire uno storico ambientale che di fatto costituisce una peculiarità del mio modus operandi. Poi ho realizzato dei video anche per le performances di Tania Bruguera con Luca Pucci. L’ultima esperienza invece è stata al fianco di Francesco Pedrini per un suo viaggio/progetto promosso dal Gruppo ABenergie e curato da Storyfactory, agenzia di comunicazione specializzata nel rapporto tra arte e impresa».
A proposito di Pedrini, a cosa vi siete dedicati?
«Ho accompagnato Francesco in un viaggio on the road in Cile della durata di tre settimane, durante il quale abbiamo visitato i principali osservatori astronomici. Per compiere quest’impresa abbiamo percorso 5mila chilometri, la maggior parte dei quali nel deserto di Atacama. Insieme abbiamo raccolto molte fotografie e video di quei luoghi astratti e minimali che verranno usati da lui per creare il video, la sua opera, mentre altre immagini sono state usate da me per dare vita ad una sorta di video documentario di quest’esperienza. Durante le riprese ci siamo confrontati costantemente, nel senso che io cercavo di interpretare le sue esigenze, tentando di capire su quali aspetti intendeva focalizzarsi, cosa escludere e cosa includere nei frames».
Quando e dove sono state mostrate al pubblico queste opere?
«Lo scorso 17 aprile alla Fonderia Napoleonica Eugenia a Milano sono stati proiettati i miei due video come racconto del viaggio realizzati ad hoc per quella serata insieme a una prima versione del video dell’artista. Ho montato due video “gemelli”, simili ma non identici che sono stati proiettati simultaneamente creando una sorta di dialogo tra di loro».
In che cosa risiede la differenza tra le tue opere e quelle dell’artista per cui lavori?
«Sta nel ruolo che svolgo di volta in volta e nelle finalità. Quando produco in qualità di artista sono l’autore dell’idea e voglio presentare il risultato del mio lavoro come un’opera d’arte, ma quando vengo chiamato da un artista a collaborare con lui divento videomaker. Diversamente si creerebbero problemi di autorialità. Uno dei miei obiettivi è piuttosto quello di dare vita a un format documentativo sul lavoro d’artista che mi piacerebbe sviluppare e approfondire meglio in futuro. Per realizzare questo genere di video racconti è necessario entrare in sintonia con l’artista, soprattutto apprezzare e capire il suo lavoro, partire dallo storyboard per trasformare il proprio interlocutore o la sua poetica nel soggetto principale del documentario stesso. In questo caso i miei video non vogliono essere video d’arte, ma video sull’arte».
Attivando delle collaborazioni con altri artisti come sei solito fare tu, non si corre il rischio di essere messi in ombra?
«Per quanto mi riguarda, assolutamente no. Nel caso del lavoro con Francesco Pedrini, per me è stata innanzitutto un’esperienza di crescita personale. L’importante è che vengano definiti i ruoli sin dall’inizio: io sono andato in Cile in qualità di videomaker e non di video artista, in altre parole non sono stato l’autore dei contenuti del viaggio, ma ho contribuito a dar forma alle idee di Francesco, sono stato un ‘supporto’ per lui. E di questo ne ero consapevole. Per quanto riguarda la scelta del “compagno di viaggio” in Cile l’artista ha valutato anche l’aspetto relazionale, non è stata solo questione di fiducia “tecnica” nei miei confronti. Non basterebbe, soprattutto se bisogna affrontare un viaggio così faticoso insieme come abbiamo fatto noi».