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22
novembre 2014
L’altra metà dell’arte
rubrica curatori
Intervista a Fabio Fornasari, architetto d’arte che nel suo curriculum vanta la progettazione del Museo del Novecento di Milano in collaborazione con Italo Rota. E che racconta che cosa significa lavorare con e per gli artisti
di Manuela Valentini
di Manuela Valentini
Qual è la sua formazione?
«Per raccontare la formazione di qualsiasi individuo si possono utilizzare due immagini di riferimento a me care. Una lineare come il grande labirinto di Chartres e l’altra in continua trasformazione, come la figura del Mandala. In un primo caso parliamo di una sequenza di eventi, di un percorso che ricorda la struttura delle fiabe: la costruzione dell’eroe che siamo. Nel secondo caso la questione è più articolata. Ricordo che da bambino ascoltavo come tutti a ripetizione le favole, sempre le stesse. Fino al giorno in cui capii che sicuramente aveva un senso farlo: stavo imparando alcuni meccanismi della vita. Qual è il senso di tutto questo? Potrei scrivere un percorso accademico, oppure potrei raccontare delle persone speciali che mi hanno ispirato. Unica cosa da smentire è poterci pensare slegati da tutto ciò che ci accade intorno, poterci pensare formati in qualsiasi momento della vita. La formazione e la vita nel suo insieme coincidono. Le competenze che sviluppiamo, acquistiamo e conquistiamo le possiamo trovare in un libro, in un amico, in un film e negli istituti blasonati. Ma se non avessi avuto una curiosità che si radica di continuo, che cerca strade per cercare nuova linfa, non so cosa avrei risposto. Infine, se serve: sono architetto; una buona scusa per fare tante cose che mi piacciono, da condividere con gli altri».
Chi sono i suoi interlocutori?
«Mi è capitato di fare tante opere di natura molto differente con committenti altrettanto differenti. Quello che li accomuna è più che altro una caratteristica legata ad alcune sensibilità che ho coltivato e sviluppato nel tempo e che viene ricercata spesso da strutture che cercano figure non troppo definite dal punto di vista disciplinare. Posso dire a completamento della sua prima domanda sulla formazione che avendo studiato e letto molto e avendo avuto la fortuna di misurarmi con persone e situazioni professionali molto diverse tra loro, ho appreso una personale capacità di entrare nei contenuti che mi trovo a dovere esporre. Questo a fianco di una tecnica che parte dalla conoscenza della materia che mi arriva dall’aver lavorato già da bambino nella bottega artigiana di mio padre. I miei interlocutori sono spesso gruppi di lavoro che hanno bisogno di trovare dei dispositivi cognitivi che raccontano contenuti particolari. CNR, il CERN, musei Archeologici, Sovrintendenze, Musei di arte contemporanea e moderna sono alcuni dei miei “clienti”. Ma anche aziende che cercano di comunicare qualcosa di più del semplice prodotto. Sviluppo progetti da ormai venti anni per istituti che si occupano di disabilità, sia del corpo che della mente. Ma anche artisti privati che hanno bisogno di trovare un modo particolare per mostrarsi. Il mio è un lavoro fatto molto di pensiero. Fino a quando non mi funziona nella testa non escono i disegni. Non progetto bacheche, non disegno teche. Non sono un designer museale. Questa è la cosa che, quando capita, è molto apprezzata specialmente dagli artisti. Mi affianco, non mi sovrappongo».
Quali pensa siano sono i lavori più significativi che ha svolto?
«Ci sono dei momenti di svolta importanti per ciascuno di noi, nei quali capiamo che abbiamo di fronte un problema che ci cambia, che ci arricchisce. Questo per me è significativo. Ogni lavoro è come una partita a scacchi; non sempre la significatività si lega a una vittoria. Sicuramente un lavoro molto significativo è legato a una dimensione molto sperimentale iniziata negli anni Novanta con diverse istituzioni museali e centri di ricerca sulla cecità europei. Da quel momento ho cominciato a elaborare alcune idee che ho avuto la grande fortuna di avere potuto sperimentare in seguito in tutti i miei lavori. L’immersione nella storia di Roma e del suo patrimonio archeologico è stato altro elemento significativo. Sono entrato in questo contesto disegnando una “figura” che aveva il compito di contenere due modelli di atleti a confronto: le opere dei classici greci e romani e le opere degli artisti anni trenta italiani. Il primo tassello che mi ha portato a progettare in luoghi molto speciali mettendomi continuamente alla prova: i sotterranei delle Terme di Caracalla per primo. Altra immersione molto formativa è stata l’esperienza Museo del Novecento. Progettato con Italo Rota, è stato un lavoro lungo che ha avuto una agenda molto piena di eventi particolari che hanno richiesto e sviluppato abilità particolari».
Quali sono i criteri che segue generalmente per l’allestimento di una mostra?
«Il primo e più importante: il rispetto per chi ho davanti e delle cose che mi affida. Se qualcuno ti chiede un “aiuto” ci deve ben essere un motivo. Capirlo al di là delle sue parole cercando di contestualizzarlo nella storia che ci sta intorno. Non ci sono due casi uguali. L’esperienza del lavoro precedente è più nel far tesoro di un metodo. Quando comincio un lavoro sto molto in silenzio e ascolto. Sapere ascoltare non è facile. Poi c’è lo studio, l’applicazione e la devozione».
Immagino si occupi un po’ di tutti i generi d’arte.
«Credo di avere in parte risposto. Mi è capitato di esporre letteratura, scultura, pittura e anche elementi immateriali. Ho lavorato molto anche nel virtuale. L’unica cosa che ho esposto davvero poco è stata la mia attività, me stesso. Questa è la principale lamentela di chi mi conosce. C’è tempo».
A cosa sta lavorando al momento?
«Come un elenco, con qualche mistero (un ingrediente a me caro per costruire qualsiasi storia): 1) Villa di Livia a Primaporta, a Roma: si tratta della riapertura di un sito archeologico con la ricostruzione del giardino storico. 2) Una serie di installazioni sul significato della parola Biodiversità. 3) Una “scatola pedagogica” che ribalta un punto di vista».