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15
aprile 2014
L’altra metà dell’arte
rubrica curatori
di Manuela Valentini
Continua il nostro viaggio dietro le quinte del mondo dell’arte con l’intervista a Uliana Zanetti, responsabile dell’attività espositiva e delle collezioni del Museo d’Arte Moderna di Bologna
Continua il nostro viaggio dietro le quinte del mondo dell’arte con l’intervista a Uliana Zanetti, responsabile dell’attività espositiva e delle collezioni del Museo d’Arte Moderna di Bologna
Uliana, qual è stato il tuo percorso formativo?
«All’Università di Bologna ho conseguito la Laurea al DAMS con indirizzo artistico e la Specializzazione in Storia dell’Arte Contemporanea, ma la formazione vera e propria l’ho acquisita sul campo, sempre nello stesso museo dal 1989, e facendo un po’ di tutto».
Quale il tuo ruolo al MAMbo?
«Mi occupo principalmente delle mostre temporanee e ho compiti di supervisione rispetto alla gestione delle collezioni. Essenzialmente sono quindi una registrar, e come tale faccio anche parte di ‘Registrarte’, l’associazione delle/i registrar italiane/i. Tuttavia, i ruoli professionali nei musei sono spesso difficili da definire in modo sintetico perché quasi sempre richiedono il possesso di diverse competenze e di una discreta propensione ad affrontare tematiche e problemi imprevisti. Tengo inoltre a precisare che faccio parte di un ottimo staff tutto al femminile: credo che ognuna di noi non solo cooperi in modo essenziale al funzionamento del museo, ma contribuisca con i suoi saperi e con la sua passione a connotarne i punti di eccellenza che tanti ci riconoscono».
Curioso questo fatto che al MAMbo lavorino solo donne… Pura casualità o disegno strategico?
«Lo staff tutto femminile non si è costituito per un disegno preciso. Si potrebbe ragionare a lungo sul perché le donne siano comunque la maggioranza in questo mestiere e eccezionalmente molto presenti anche a livelli alti. Ma nel nostro caso abbiamo semplicemente vinto dei concorsi».
Tu sei anche curatrice…
«Ho lavorato sempre e solo per questo museo, anche se ha cambiato nome e struttura nel tempo, ma non mi definirei una curatrice. Il mio compito, semmai, è quello di mettermi al servizio delle curatrici e dei curatori: è un lavoro che mi piace e che mi offre ancora tanto da imparare. Tuttavia ammetto che mi appassiona moltissimo operare a stretto contatto con alcune/i artiste/i e cercare insieme a loro le soluzioni migliori per realizzarne i progetti. Quando ve n’è l’occasione faccio anche delle proposte, come è accaduto con “Regali e regole” di Stefano Arienti e Cesare Pietroiusti o con “Autoritratti. Iscrizioni del femminile nell’arte italiana contemporanea”, forse l’impresa più impegnativa fra quelle alle quali ho lavorato. In entrambi i casi si è trattato di progetti di lunga durata, non circoscritti semplicemente a un evento o a una mostra e, soprattutto, elaborati e realizzati grazie a estesi processi di collaborazione. Trovo siano stati tentativi riusciti di arricchire il museo mettendo in moto, anche in modi inattesi, relazioni, incontri, discussioni, produzioni di nuovi significati. Attraverso queste attività credo di essere riuscita a tradurre nel concreto un’idea di museo più generativa che celebrativa, cosa che corrisponde alle mie convinzioni politiche e deontologiche. Non amo il protagonismo e, quando possibile, mi rendo volentieri portavoce e complice di idee elaborate da altri, a patto che mi entusiasmino: è successo, ad esempio, con le sette serate organizzate per “Collezioni mai viste” dall’Associazione 0GK e dedicate a vedenti e non vedenti, con la convenzione attivata con il Musée de l’Ohm di Chiara Pergola, con la mostra “Scanner” di Matej Krén, con “Italia” di Mili Romano».
Cosa ne pensi del fatto di lavorare in una realtà pubblica?
«Farei fatica a pensare di occuparmi di arte nel privato e non sono disposta ad adeguarmi a una certa idea di successo e di carriera. Per me lavorare nel pubblico significa avere la possibilità di cercare un vantaggio per tutti e non solo per pochi. Sono molto orientata a pensare al museo, soprattutto trattando di arte contemporanea, come a un bene comune, un luogo dinamico che appartiene a tutti e alla cui evoluzione tutti possono, almeno potenzialmente, contribuire. Dall’altra parte ritengo sia un presidio importante anche per lo sviluppo di saperi e di professionalità specifiche, indipendenti dalla realizzazione di profitti economici. Il MAMbo è una struttura che funziona, nonostante le ristrettezze finanziarie, soprattutto grazie a uno staff di dipendenti pubbliche a tempo indeterminato, che si sentono pienamente coinvolte nel lavoro istituzionale. Rispetto al privato – che è una sfera in realtà assai variegata e complessa, con la quale le istituzioni pubbliche interagiscono in molti modi – temo l’instabilità e il vincolo più stringente di sottostare a calcoli economici che poco hanno a che fare con i miei interessi e la mia etica. Nella precarietà è comunque difficile, credo, convogliare su obiettivi comuni la passione autentica di tante persone, dando loro la possibilità di sviluppare indipendenza intellettuale e creatività: e io non vedo come altrimenti possa esistere la cultura».
A cosa ti stai dedicando al momento?
«Mi dedico alla realizzazione del programma del MAMbo per il 2014, sperando anche di poter portare a termine alcuni progetti lasciati in sospeso».