Categorie: rubrica curatori

L’altra metà dell’arte

di - 23 Aprile 2014
Dario, com’è cominciata la tua avventura nel mondo della fotografia d’arte?
«Ho cominciato una ventina d’anni fa nel settore della moda e della pubblicità; sebbene non mi piacesse affatto, da giovanissimo ho lavorato anche nel food. Credo comunque che tutto ciò abbia contribuito a formare un background utile per la costruzione di una carriera a 360°».
Poi il passaggio definitivo all’arte…
«Un incontro decisivo è stato quello con Graziano Pompili, uno scultore reggiano che mi ha fatto riflettere sul significato dell’arte. Da qui è nata la mia grande passione per la stessa, la quale mi ha portato a scegliere di specializzarmi in questo settore. Il mio obiettivo era – e lo è tuttora – quello di fornire ai clienti una sorta di valore aggiunto, una garanzia per quanto riguarda la fotografia d’arte».

Se non erro, sei pressoché l’unico a svolgere questo mestiere così specifico…
«Effettivamente non so quanti fotografi d’arte ci siano in giro. Comunque quelli che conosco tendono a lavorare prevalentemente nel loro territorio, nelle loro città, io invece sono sempre in giro per l’Italia e non nascondo che mi piacerebbe allargare le mie vedute verso confini esteri. Ultimamente non è facile lavorare nel nostro Paese, perciò mi sono attivato per effettuare delle ricerche a proposito dello stato della fotografia d’arte in America, in particolare a New York. Confrontando le realtà di questi due Paesi, mi sono reso conto che le problematiche del lavoro sono le medesime: chi fa foto d’arte è sempre un artista (o pseudo tale) oppure persone che fanno foto di architettura. Solo che una cosa è fotografare un palazzo, per esempio, e una cosa è fotografare un’opera d’arte».
Che vuoi dire?
«Un’opera d’arte è un elemento inserito in un contesto architettonico che spesso in una fotografia d’arte viene messo in secondo piano; il fotografo di architettura invece, tende a mettere in evidenza altri aspetti».
In cosa consiste la differenza tra la fotografia d’artista e la tua?
«La differenza consiste nel fatto che io lavoro su commissione, non su una ricerca personale come è solito condurre un artista. Nei miei scatti cerco di essere sempre neutro, pur cercando di attribuire una certa sensibilità alle foto. Tuttavia, per svolgere questo lavoro credo sia importante avere un’ottima conoscenza dell’arte contemporanea, oltre ad avere un’attitudine nel saper rispecchiare l’universo dell’artista. Per questo cerco di entrare in sintonia con l’artista, nel tentativo di conoscere a fondo il suo pensiero, oltreché la sua persona. Poi può anche capitare che ci siano artisti con cui non c’è intesa, ma penso che sia normale dato che i gusti sono soggettivi. Rimane il fatto che il mio lavoro è al servizio dell’arte, se l’artista vuole una luce bassa devo usarla anche se non mi piace. Le mie foto devono servire a far sì che le loro opere siano capite dagli altri così come loro vogliono che sia».

Secondo te quand’è nata l’attenzione per la fotografia d’arte?
«I primi fotografi d’arte sono nati con la Performing Art, poi c’è stato un totale abbandono. Adesso questo lavoro è tornato ad acquisire importanza con l’avvento delle opere site-specific. Tuttavia, ho sempre sostenuto che la fotografia d’arte abbia acquisito valore grazie ai cataloghi delle fiere che hanno consentito al pubblico di avere un termine di paragone tra una foto e l’altra. Ma è solo una mia teoria. Credo sia estremamente importante mostrare un’opera d’arte nell’ambiente dove è esposta. Oltre a mantenere la sua identità, l’opera si relaziona allo spazio e nasce un dialogo ulteriore che le dà nuova vita. La fotografia d’arte rimane quindi l’unica documentazione possibile. Vedi anche il sito-web di tante gallerie all’estero da David Zwirner a New York, ad esempio, dove i lavori degli artisti sono mostrati attraverso fotografie delle opere installate nello spazio. Inoltre gli stessi artisti mi raccontano che con il diffondersi sempre più dell’uso di Internet, gli stessi collezionisti, curatori e direttori di musei interessati al loro lavoro, prima di fare uno studio visit gli chiedono di mandargli le foto delle loro opere situate in un contesto ambientale. Molti artisti come Flavio Favelli per esempio – con cui sono solito lavorare – o istituzioni e gallerie, ne hanno già capito l’importanza, ma sicuramente in Italia c’è ancora tanto da fare».

Immagino ci sia molta post-produzione…
«Assolutamente sì. Spesso mi capita di impiegare due ore a scattare le foto e poi una giornata intera per la post-produzione. Per me post-produzione significa non tanto modificare la foto, quanto piuttosto eliminare tutti quei disturbi che quando guardi una mostra non vedi, ma che se si trovano in una foto si notano parecchio. Questo discorso vale per esempio per gli estintori o i cartelli che costituiscono solo delle distrazioni per l’occhio. Anche le luci vanno leggermente bilanciate per equilibrare la visione dei nostri occhi con quella della macchina fotografica, le quali sono ovviamente molto diverse. Tutto ciò ha fatto sì che oggi il mio stile – caratterizzato da una forte sensazione di pulizia e rigore – sia riconoscibile tra gli altri».
Fotografo d’arte, ma prima ancora, a detta tua, grande appassionato d’arte contemporanea. È forse la fotografia il genere che preferisci?
«In realtà no! Non sono particolarmente interessato alla fotografia, perché non amo il multiplo, anche per la mia collezione personale preferisco investire in altro. In generale non mi piacciono molto gli artisti che si avvalgono di un solo linguaggio artistico, ma seguo con più coinvolgimento coloro che si esprimo per mezzo di tecniche differenti».

Nata a Bologna nel 1982, vive e lavora tra Bologna, Milano e Roma. Laureata in Storia dell’Arte Contemporanea all’Università di Bologna, oggi è curatrice indipendente di mostre d’arte in Italia e all’estero. Iscritta all’ordine dei giornalisti, scrive articoli di arte per Il Resto del Carlino e per altre riviste del settore. Sportiva, appassionata di viaggi e… totally art addicted.

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