Categorie: rubrica curatori

Ritratto del curatore da giovane

di - 4 Maggio 2013
Eugenio, presentati brevemente per favore
«Sono nato a Napoli trentasette anni fa e a tal uopo colgo subito l’occasione di ringraziarti, per avermi voluto inserire in una rubrica sui giovani curatori. In genere amo ripetere che vivo tra Napoli e il mondo».
   

 

Cos’hai studiato e qual è il tuo approccio al mondo del lavoro?
«Mi sono laureato in storia dell’arte contemporanea, con una tesi incentrata sulla riscrittura critica della figura di Orlan, artista che lungamente avrebbe segnato il mio percorso critico e curatoriale. Ho poi frequentato nel 2002 il master per curatori che organizzava l’Accademia di Brera, dal quale sono usciti diversi amici e colleghi, seguito da un Progetto Leonardo che mi ha portato ad un’esperienza londinese nel 2004, per concludere, almeno al momento, nel 2010, con un dottorato all’Università degli Studi di Salerno, col mio maestro, Angelo Trimarco, con cui ho svolto una tesi di ricerca sul Post Human e i rapporti, inquieti, tra arte e biotecnologie. Ho iniziato ad interessarmi alle questioni inerenti la critica d’arte fin dagli studi universitari, focalizzandomi sempre di più sul presente dell’arte e specializzandomi in quel senso. Parallelamente ho iniziato a scrivere per una serie di riviste di settore, italiane e internazionali (Flash Art, l’americana Artforum, la spagnola Exit Express). L’attività curatoriale indipendente è iniziata dopo alcune collaborazioni, tra cui quella con Lòrànd Hegyi, che è stato il mio mentore, quando era direttore artistico del Pan di Napoli e poi al MAM – il Musée d’Art Moderne di Saint Etienne in Francia. La prima esperienza importante da curatore indipendente è stata la mostra di David LaChapelle: V.I.P. – Very Important Portraits (2006) negli spazi del Museo di Capodimonte, curata con Adriana Rispoli, che ha lavorato con me anche alla Project Room del Madre. L’input ci fu dato dall’allora Soprintendente Nicola Spinosa che ci chiese un link contemporaneo alla mostra su Tiziano e il Ritratto di Corte da Raffaello ai Carracci. L’idea era provocatoria e ironica, giocata sul parallelo tra il genio italiano del Cinquecento e il fotografo americano: entrambi artisti rampanti, alla moda e di successo. La mostra ebbe un’eco enorme, con un’affluenza di pubblico, in tre mesi, di oltre novantamila persone. Da allora ho lavorato da free lance, in Italia e all’estero, e dal 2009 al 2012 come curatore della Project Room del Museo Madre, per il quale abbiamo messo a punto il progetto “Transit”, che rifletteva sul ruolo liminale della città di Napoli, ultima città europea e allo stesso tempo prima città che si apre sull’ecumene mediterraneo, gemellando metaforicamente la città e il museo, immediatamente prima della primavera araba, con Il Cairo, Istanbul, Tel Aviv e Salonicco. Posti per certi versi “eccentrici”, nel senso etimologico del termine, ovvero fuori dalle grandi rotte dell’arte. Luoghi difficili che mi hanno sempre stimolato, come i Balcani, in quanto offrono la possibilità di rileggere, attraverso il presente e il linguaggio metaforico dell’arte, le complessità e le stratificazioni di aree geografiche che, da sempre, integrano nel proprio tessuto nuovi conflitti, contraddizioni e dinamiche».

Quali sono, se ne hai, i punti di riferimento della tua attività curatoriale?
«Non ho particolari figure di riferimento, posso però dirti, come ho già dichiarato più volte, che preferisco un approccio curatoriale che contempli, per quanto possibile, le duplici istanze della  ‘verbalizzazione’ e della ‘visualizzazione’, per ricordare due termini cari ad Ammann, un discorso che cerchi di tenere uniti, coerentemente, profilo teorico e scrittura espositiva. Considero le mostre una sorta di saggio visivo, la visualizzazione di un discorso critico. Sono per un approccio curatoriale impegnato, attento ad enucleare emergenze tematiche che indaghino, in maniera anche – perché no? – provocatoria, le lacerazioni e le inquietudini della contemporaneità. Cerco di portare avanti un lavoro che sia etico, anche se scomodo, ma soprattutto sincero e radicale. Credo anzi che l’arte debba essere scomoda, debba necessariamente fornire letture alternative. Se è vero, come dice Michaud, che “l’arte è diventata ormai l’etere della vita ed è passata allo stato gassoso”, una teoria e una pratica curatoriale eticamente responsabile devono ribaltare polemicamente questa prospettiva e rimettere in questione, oltre il caos mediatico imperante dell’informazione globale, il ruolo impegnato dell’arte e dell’artista, ma anche del curatore».
I tuoi studi sono orientati prevalentemente verso le teorie e le esperienze legate alla performance e alle poetiche del corpo. Quali sono secondo te oggi le tendenze e le novità nel campo delle arti performative?
«Effettivamente questi percorsi impervi hanno segnato i miei esordi. Ed è soprattutto in questo aspetto specifico che sono riuscito ad abbracciare le due istanze della verbalizzazione e della visualizzazione, cui facevo riferimento prima: ad esempio Orlan è stata l’oggetto  della  mia  tesi  di laurea, prima che io diventassi, come  lei stessa ama definirmi, il suo ‘specialista’. Ad oggi ho curato sei sue mostre, inclusa la sua più importante retrospettiva al Musée d’Art Moderne de Saint-Etienne Métropole in Francia, portata poi l’anno dopo alla Kunsthalle di Tallinn in Estonia e la relativa monografia, Le Récit, edita da Charta. Un percorso di ricerca teorica e pratica curatoriale che ho avuto la fortuna di poter portare avanti anche al MADRE, con tre edizioni di Corpus. Arte in Azione, un festival di performance site-specific, ogni anno con un focus diverso, che mi ha dato la possibilità di indagare diverse emergenze tematiche nel variegato campo delle arti performative. La prima edizione era caratterizzata da una certa fascinazione per il cosiddetto ‘corpo estremo’, che ha visto protagonisti Ron Athey, Andrea Cusumano, il serbo Gabrijel Savic Ra, Kira O’Reilly, Milica Tomic e la napoletana Angela  Barretta, esperienze radicali cui si accompagnavano una  serie di tangenze che  uniscono l’interesse  performativo alla musica, con artisti quali Jamie Shovlin e i Lustfaust e Tobias Bernstrup. La seconda era invece incentrata sul ‘femminino’ e sulla pratica, ancora una volta radicale e politica, di un agguerrito gruppo di artiste sudamericane: Tania Bruguera, Teresa Margolles, Regina Josè Galindo e Maria Josè Arjona. L’ultima, ad oggi, ha presentato invece un focus sulla scena italiana, con interventi di Jacopo Miliani, Davide Balliano, Filippo Berta, Cristian Chironi, Luigi Presicce, Francesca Grilli, Rosy Rox… Posso dirti che la performance vive oggi un interessante rilancio, dopo i rigurgiti legati al cosiddetto Neo Primitivism e alle esperienze radicali degli anni Novanta. Piuttosto che parlare di tendenze e novità, preferisco rilevare come la performance oggi sia luogo di contaminazioni, un ibrido tra diversi linguaggi: teatro, installazione, cinema, musica, arti visive, danza, culture popolari. Proprio questa contaminazione ha permesso la possibilità di nuove forme d’arte basate sul tempo in cui viviamo e non limitate dalla tradizione e dalle convenzioni della performance storica. Non a caso alcuni, come Lois Keidan, preferiscono parlare più che di performance di Live Art, proprio per sottolineare questa discontinuità con le esperienze ormai storicizzate».

Parlando di performance, non possiamo di certo tralasciare Marina Abramovic, il cui nome spicca nella lista delle mostre da te curate. Anzi, in questo caso, co-curate dato che hai dato vita al progetto insieme a Diego Sileo. Che ricordi hai di quella esperienza? Cosa ti ha lasciato?
«Ho co-curato diverse mostre, mi piace il network. Nel caso di The Abramović Method a Milano con Diego Sileo, ed è stata una bella collaborazione. Lavorare con Marina, può sembrare scontato dirlo, è un’esperienza unica: da un lato mi sono confrontato con un pezzo di storia, una figura di prima grandezza, indiscussa, cruciale e quasi mitica per il mio percorso critico-curatoriale, dall’altro, lavorando con lei, ho scoperto progressivamente un approccio fresco, curioso, una voglia di mettersi in discussione che mi ricordava quello di un artista “giovane” (per quanto io sia il primo ad essere insofferente a queste, spesso inutili, fuorvianti classificazioni). Un modus operandi ad ogni modo contraddetto da una ferrea consapevolezza delle cose, che tradisce invece il piglio sicuro dell’artista consumata. Marina è una miscela esplosiva. Mi ha fatto crescere molto, è stata un’esperienza fondamentale nel mio percorso sia professionale che esistenziale. Siamo ancora costantemente in contatto: lavoriamo a diversi progetti insieme, incluso una mostra itinerante in Sud America, che partirà alla fine del 2014».

Quali caratteristiche eo qualità sarebbe opportuno che un artista giovane avesse per intraprendere la strada del successo?
«Non credo esistano ricette vincenti – la strada del successo è impervia, costellata di diverse variabili non calcolabili. Quello che mi sento di consigliare è di credere sempre nel proprio lavoro e di portarlo avanti con coerenza e fermezza, senza compromessi. Inoltre non è sempre vero che i più bravi siano necessariamente quelli di maggiore successo: oggi vale sempre più il fatto di essere buoni manager di se stessi, valgono maggiormente doti di comunicatività, essere, a seconda delle occasioni, sempre smart, o comunque “sul pezzo”… e questo, di nuovo, non vale solo per gli artisti».

Nata a Bologna nel 1982, vive e lavora tra Bologna, Milano e Roma. Laureata in Storia dell’Arte Contemporanea all’Università di Bologna, oggi è curatrice indipendente di mostre d’arte in Italia e all’estero. Iscritta all’ordine dei giornalisti, scrive articoli di arte per Il Resto del Carlino e per altre riviste del settore. Sportiva, appassionata di viaggi e… totally art addicted.

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