Puoi presentarti?
«Sono nata a Roma trentasette anni fa, vivo nella mia città, e lavoro tra qui e altrove».
In cosa e dove ti sei laureata?
«In Lettere presso L’Università di Roma La Sapienza, Scuola di Specializzazione in Storia dell’Arte dell’Università di Siena – che però non ho completato – Master in Curating presso il Goldsmiths College di Londra, e adesso il dottorato presso la Scuola di Studi Storici, Archeologici e Storico Artistici dell’Università di Napoli Federico II. E nel frattempo, e altrettanto formativi, uno stage poi diventato più tardi una collaborazione alla Fondazione Adriano Olivetti di Roma, dove ho conosciuto alcune persone che nella mia vita professionale e anche personale sono ancora oggi molto importanti, un internship al Palazzo delle Esposizioni, entrambi durante la specializzazione, e poi a Londra uno stage presso il dipartimento di Didattica del British Museum, dove James Putnam curava un programma di residenze e conferenze di artisti contemporanei e che era un modo per ripensare la collezione del museo attraverso l’arte contemporanea. Non è parte della mia formazione, ma della mia crescita professionale certamente sì, il percorso che ho intrapreso con tutte le persone che hanno fatto parte di ‘1:1projects’ e quelle che attraverso la sua progettualità ho incontrato».
Curare mostre d’arte, a mio parer mio, significa anche impegnare costantemente le proprie energie su un progetto specifico. Insieme ad Ilaria Gianni sei la direttrice artistica della Nomas Foundation di Roma; non ti senti in difficoltà a lavorare stabilmente per una fondazione e poi a collaborare per un’altra fondazione come la Ermenegildo Zegna?
«Ammetto di sentirmi in difficoltà con questa domanda, e per ragioni diverse. Non mi trovo d’accordo con la definizione che offri del mestiere di curatore, o almeno, non credo che la qualità del lavoro sia conseguenza di un impegno esclusivo a un solo progetto, ma piuttosto la specificità di un certo sguardo. Credo che curare mostre d’arte significhi portare la propria differenza nei diversi contesti in cui si lavora. La seconda difficoltà nasce dal fatto che la domanda si basa su un assunto sbagliato: io non collaboro con la Fondazione Zegna: ZegnArt è un progetto ideato e curato da me e Simone Menegoi per il gruppo Ermenegildo Zegna, ed è del tutto distinto dall’attività della Fondazione Zegna. Non capisco poi se la domanda è ingenua o polemica e se mi si chiede di discolparmi da fatti che non ho commesso, o di cui se dovessi dar conto, sarebbe solo alle persone con cui collaboro. Cerco lo stesso di rispondere, e magari così facendo venire a capo del mio smarrimento: non credo esista conflitto di interessi tra i due progetti, e non sento di sottrarre tempo o energia all’uno o all’altro (ne sottraggo alla mia famiglia e ai miei affetti, ma questo è un altro capitolo). Viceversa so di aver sempre avuto bisogno di lavorare contemporaneamente a cose diverse – anche all’università non ho mai saputo leggere un solo libro per volta, ma avevo la scrivania piena di cose che apparentemente non c’entravano niente con l’esame che dovevo dare – perché ogni contesto offre una diversa relazione con l’arte e con i suoi pubblici. La possibilità di confrontarmi con scenari diversi e farne esperienza pratica è una ricchezza enorme, come considero una fortuna avere la possibilità di dialogare quotidianamente con persone che stimo come Ilaria e Simone, o di situare il mio lavoro e il mio sguardo in contesti radicalmente e felicemente diversi. Non sento di poter esaurire in un progetto le cose che mi interessa condividere. Cercando di uscire però dall’aspetto così personale della tua domanda, mi sembra che questa sia una questione comune alla maggioranza dei miei colleghi. Le nostre vite professionali si dividono regolarmente tra tanti impegni, e questo fatto è favorito da un lato dalle politiche del lavoro di cui siamo parte, dall’altro da una mobilità diversa e una diversa relazione tra istituzione e curatore, per cui il lavoro intellettuale non è prestato in esclusiva».
Lo stesso discorso vale per la tua attività di curatrice indipendente…. Non pensi che interferisca con la co-direzione della Nomas?
«Insieme a Ilaria Gianni abbiamo iniziato da poco un progetto di ricerca sui generi dell’arte. Nasce certamente dalle nostre riflessioni sul medium che hanno punteggiato il programma di Nomas, e tuttavia è qualcosa che abbiamo voluto fare altrove. Le due mostre che abbiamo realizzato fino ad adesso, una dedicata al paesaggio e la seconda alla natura morta, hanno dato a entrambe nuovi stimoli e rinforzato ancora di più il nostro rapporto professionale, oltre che umano. Come potrebbe questo non fare bene anche a Nomas?».
Verso quale genere di arte è rivolta la tua ricerca curatoriale?
«Anche se i generi soprattutto adesso mi interessano, non credo che sia questo a guidare la mia ricerca. Mi piacciono certi lavori che non riesco a esaurire con uno sguardo, e a cui ritorno e che spesso diventano linee guida per guardarne altri. Mi interessa – sempre – la relazione tra opera e contesto espositivo. Non smetto di guardare all’arte come a un’occasione di conoscenza ed esperienza del mondo».
Tre qualità che secondo te un buon curatore dovrebbe avere.
«Curiosità, capacità d’ascolto, rigore».