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30
ottobre 2013
Ritratto del curatore da giovane
rubrica curatori
Manuela Valentini intervista Daniele De Luigi, giovane curatore emiliano esperto in fotografia contemporanea
Daniele, presentati per favore.
«Sono nato a Perugia 38 anni fa, ma quando avevo solo un anno la mia famiglia si è trasferita a Reggio Emilia, dove tuttora vivo e lavoro, con incursioni a Bologna».
La tua attività si focalizza prevalentemente sull’immagine fotografica. Come mai hai deciso di concentrarti proprio su questo linguaggio?
«È un interesse che in origine nasce dalla passione che avevo a vent’anni per il fare fotografie, e che mi ha indotto a concentrare sulla storia e la critica di questo mezzo i miei studi universitari. Per un periodo dopo la laurea ho scritto testi critici per dei fotografi e contemporaneamente realizzavo immagini, con risultati discreti. Poi ho avuto l’occasione del mio primo progetto curatoriale e ho preferito scegliere tra le due strade, che vedevo conflittuali, decidendo senza rimpianti di accantonare la fotocamera. Più tardi ho scoperto che molti curatori di fotografia hanno avuto un passato da fotografo, oltre a quelli che mantengono tuttora una duplice veste: questo forse perché non c’erano percorsi di studio specifici e distinti come per l’artista e lo storico/critico d’arte, o forse perché nella fotografia la tecnica è particolarmente importante per comprenderne stili e poetiche».
Secondo te è possibile rintracciare delle caratteristiche comuni al modo di scattare dei giovani fotografi italiani? C’è un fil rouge che li accomuna? E quali sono le tendenze?
«Trovo molto difficile individuare degli aspetti che accomunino i fotografi italiani emergenti, e credo sia l’inevitabile conseguenza di alcuni fattori: non esiste un sistema educativo strutturato, le scuole sono poche e spesso sono delle isole; è difficile pensare a istituzioni o riviste nazionali di riferimento che imprimano una linea, una direzione, così come il mercato fatica a trasmettere valori certi. Tutto questo mentre la fotografia stessa vede grandi cambiamenti. Penso di poter dire che sono ancora molto diffuse tra i giovani le ricerche sul paesaggio e il reportage sociale, anche per le spinte autoconservative del sistema istituzionale, sebbene per fortuna alcuni artisti stiano cercando di mettere in crisi questa tradizione per rinnovarla. C’è anche una spiccata propensione a indagare la nostra storia, mentre vorrei un maggiore impegno sul presente declinato in termini di ricerca artistica. Un aspetto che trovo positivo è la crescente contaminazione della fotografia con altri media e la ricerca di nuove modalità espositive».
Cosa ne pensi dell’avvento della fotografia “spontanea”, nata grazie agli Smartphones e ad Internet?
«Si tratta di un nuovo capitolo nell’evoluzione delle funzioni sociali e culturali della fotografia innescate dal progresso delle tecnologie. Ce ne sono stati altri in passato, anche se è innegabile che questo è di grande portata. A cambiare non è stata tanto l’immagine in sé, a mio avviso, quanto i modi e i tempi in cui essa viene prodotta, recepita, diffusa e condivisa. È un fenomeno che non va esaltato entusiasticamente né tantomeno condannato: ha reso la fotografia un mezzo di espressione e comunicazione più comune, e questa ampia circolazione da una parte può forse contribuire ad “alfabetizzare” le persone all’immagine, dall’altra spinge anche a un consumo più superficiale. Va soprattutto capito e in questo l’arte come sempre è in prima linea, molti artisti realizzano lavori che si basano sulla presenza di immagini in rete e sui social network. Sono riflessioni sulla fotografia stessa e i suoi usi, ma poiché viviamo in una cultura immersa nelle immagini, sono anche riflessioni sulla società contemporanea».
La professione del curatore è redditizia?
«Ho letto articoli scritti in paesi tipo Stati Uniti o Canada in cui si giura che è possibile… Si mormora perfino che esistano dei tariffari di riferimento per ogni singola attività che si svolge nell’ambito di un progetto espositivo. Sarcasmo a parte, in alcuni casi può esserlo, ma credo di poter dire che almeno da noi i compensi siano raramente commisurati alla prestazione. In generale la figura del curatore qui è considerata per lo più un orpello accessorio, non se ne comprende la complessità, l’importanza e soprattutto la fatica del background che ci si è costruiti e va continuamente aggiornato. Per cui si vuole sempre un curatore, ma spesso lo si paga poco o si dà spazio a curatori improvvisati con poche pretese. Altre volte per lo stesso motivo curatori esperti accettano l’incarico ma lavorano a mezzo servizio, e questo anche ad alti livelli. Poter lavorare seriamente facendosi pagare il giusto purtroppo non è facile».
A cosa ti stai dedicando al momento?
«Ho in cantiere alcuni progetti espositivi e alcuni davvero mi entusiasmano. Tra quelli che posso citare c’è la mostra sulla fotografia contemporanea irlandese insieme ad Alessandra Capodacqua, nata a seguito di un’intensa residenza curatoriale nel marzo scorso invitati dal Sirius Arts Centre di Cork; la mostra e la pubblicazione l’anno prossimo di Andate in pace, lavoro straordinario ancora in progress dei fotografi Giorgio Barrera e Niccolò Rastrelli, che sto seguendo, e un progetto di Marco Signorini molto originale, in collaborazione con la galleria The Format di Milano. E poi con l’associazione ARTEPRIMA, di cui sono membro del comitato scientifico, abbiamo tanti progetti ambiziosi per la promozione dell’arte e della creatività come strumenti di crescita sociale, culturale ed economica: uno per tutti Neuroland, in collaborazione con Fondazione VOLUME! e Dynamo Camp, incentrato sul rapporto tra esperienza dell’arte e sviluppo del sistema neuro-cognitivo individuale».