Potete presentarvi?
«Facciamo una media: proveniamo dal centro Italia (in una cittadina qualsiasi tra Bari e Vicenza); siamo nati nel pieno dei ruggenti anni ’80; la nostra piattaforma è Venezia, dove in parte viviamo».
Come mai avete deciso di formare un duo curatoriale? Qual è la forza dell’uno e quale dell’altro?
«Potremmo dire che è stata una decisione automatica. Il primato e la paternità non sono mai stati una nostra prerogativa. Alla logica delle singolarità preferiamo l’esaltazione di altre forme, che abbiamo cercato di tradurre nelle nostre mostre: la deriva, l’incontro, il frammento, lo sprofondamento, a volte il conflitto e l’incoerenza. Il duo come nucleo aperto non poteva che essere la nostra dimensione. Abbiamo sempre trovato stridente la dicitura “a cura di Francesco Ragazzi e Francesco Urbano”: non ci riconoscevamo. E poi è stato Internet ad indicarci la strada: nei motori di ricerca il modo più semplice per risalire a noi era scrivere Francesco Urbano Ragazzi. Così abbiamo trovato noi stessi. Ovviamente non sentiamo il bisogno sottolineare o rivendicare i contributi di ciascuno alla coppia. Quello che possiamo dirti è che siamo palesemente non omologhi, e che dall’altra parte cerchiamo disperatamente di sfuggire ad una polarizzazione dei ruoli. Il nostro punto di forza potrebbe stare in una certa capacità empatica che ci conduce in stretta vicinanza poetica con gli artisti e con i soggetti della nostre ricerche. Il dispositivo-mostra ci interessa nel momento in cui produce dubbio e non quando è il luogo iper-luminoso dell’esaustività. Le opere e gli autori devono essere al servizio di piccoli miracoli del reale».
Voi siete i fondatori di ‘Associazione E’. Di cosa si tratta esattamente?
«’Associazione E’ è il nostro studio associato. È una struttura no-profit leggera che ci consente di sviluppare progetti di produzione artistica costruendo ad hoc network di volta in volta differenti. Mutuando il termine dal linguaggio economico, la E si potrebbe definire un’istituzione intermedia: un punto di congiunzione tra diverse istituzioni e individui, interni ed esterni ad un campo specifico. In fondo, la ricerca di nuovo senso va di pari passo con la sperimentazione di nuove forme di committenza. Missione difficile che sta all’origine della figura del curatore».
Cosa consigliereste di seguire dopo l’università a un neolaureato in arte che vuole intraprendere la carriera da curatore? Un master, il dottorato…
«Il termine education, molto più che “formazione”, si addice all’arte contemporanea e ai suoi mestieri. Noi siamo laureati in filosofia e filmologia e la nostra laurea, sia pur doppia, non avrebbe contemplato un percorso di questo tipo. Il nostro consiglio è perseguire l’eccellenza, più al di fuori possibile dalle scuole e dalle strade battute. Nelle università e nelle accademie si può diventare i più bravi, al massimo dei fuori classe, ma alla fine ci si misura pur sempre con un campo ristretto. Il mondo è pieno di possibilità. Bisogna prendersi il rischio di cercare e costruire i propri modelli. A volte avremmo voluto iscriverci a qualche scuola molto specializzata, un nostro grande desiderio era per esempio “Le Fresnoy” a Tourcoing (Lille) o un dottorato in Filosofia del linguaggio. In due però non ci avrebbero mai preso e abbiamo deciso di credere nella coppia. E poi in realtà siamo sempre stati convinti che una vera pratica professionale non può iniziare dopo i 25 anni. Questa è una perversione dei giorni nostri: Alberto Moravia a 22 anni aveva già scritto Gli Indifferenti, Kenneth Anger a 20 aveva già girato Fireworks! Per noi più di tutto è stato essenziale macinare da subito progetti, misurandoci con contesti sempre differenti a cui non sempre eravamo preparati. Abbiamo cominciato nel 2004 quando neanche avevamo in mente di voler essere dei curatori. Il titolo non ce lo siamo dati a priori, come spesso fa chi frequenta dei corsi, ma lo abbiamo vissuto come un continuo riconoscimento da guadagnare sul campo. Il momento cruciale è stato la nostra residenza (da artisti…) alla Cité Internationale des Arts di Parigi nel 2008».
Provate a spiegare brevemente l’arte contemporanea a una persona che non se ne intende molto.
«Ci capita spesso di farlo, anche quando ci rivolgiamo a potenziali finanziatori. Quello che abbiamo imparato è che non esiste una risposta generica. La definizione di arte contemporanea è sempre il frutto di una trattativa. È in questo che risiede la sua forza dirompente».
A cosa state lavorando al momento?
«Alla prosecuzione del Padiglione Internet di Miltos Manetas. In occasione di questa Biennale di Venezia abbiamo portato a compimento la terza edizione ‘The Church of the Unconnected’, che al momento prosegue on-line sul sito di Nero Magazine. Ora stiamo progettando un padiglione permanente dedicato alle ricerche internet based. Nel frattempo abbiamo in cantiere alcuni programmi internazionali di residenza e tre progetti di mostre che non sappiamo ancora di preciso dove ci porteranno. I territori inesplorati e inespugnabili delle economie emergenti, delle identità e dei media saranno il nostro habitat».