Categorie: rubrica curatori

Ritratto del curatore da giovane

di - 6 Febbraio 2013

Qual è stato il tuo percorso formativo?

«Sono laureato di 1° e 2° livello in studi storico-artistici presso l’università di Roma “La Sapienza” alla facoltà di lettere e filosofia con due tesi sperimentali sul concetto di arte e vita, dove ho costruito una panoramica dall’inizio del Novecento a oggi su come le arti visive siano un ponte di congiunzione tra la collettività e la coscienza del presente. Prospettive dunque di evoluzione antropologica che mi hanno portato a trovare in Filippo Tommaso Marinetti e Andy Warhol un’eredità che è oggi sostanziale nella mission di spazi non profit e collettivi che da sempre ricoprono un ruolo decisivo nella riduzione della distanza tra massa e cultura, grazie anche a interventi di riqualificazione, e quindi evoluzione, di aree urbane degradate. Due lavori che hanno avuto un’influenza notevole quando nel 2007 ho lavorato in spazi non convenzionali, cercando e tessendo criticamente lì dentro il racconto della nuova storia visiva che gli artisti concepivano per essi. Mi sono trovato tra le mani un naturale approccio curatoriale dal carattere speleologico che, progetto dopo progetto, è diventato sempre più estremo, portandomi oggi a trascorrere lunghi periodi a fianco degli artisti per capire ancora più a fondo cosa accade nel loro processo creativo. Devo, infatti, a loro parte del mio sviluppo formativo, e la mia curiosità famelica è stata terreno fertile, come ancor prima lo è stato un clima familiare sensibile verso qualunque forma di pensiero: medicina, teologia, filosofia, letteratura, musica, arte».

Quale la tua prima mostra?

«Il sangue speso di tutte le mie stelle – devozioni VIII di quel pazzo visionario di Gian Maria Tosatti, l’ottava tappa di un ciclo di dieci installazioni dal titolo Devozioni concepite per dieci diverse architetture di Roma. Quest’installazione ambientale di via Panisperna, in particolare, dava ad un ex magazzino le sembianze di un bunker della II° guerra mondiale interrato chissà in quale parte d’Europa. L’ispirazione visiva arrivava dalla vicenda di Joseph Goebbels e le sue ultime ore di vita che precedettero, con l’omicidio dei figli, il suo suicidio in un gesto sacrificale compiuto nell’ultima notte di un’era, quasi ad essere sigillo del trapasso dall’era moderna a quella contemporanea. Il progetto ci ha impegnato fino al 2011, e in questo arco di tempo io e Gian Maria abbiamo discusso a lungo sul rapporto tra le sue installazioni e le architetture. Definimmo queste ultime “spazi di risonanza”, “luoghi-analogia” che entrano in comunione con le architetture interiori di ognuno, intrecciando i ragionamenti dell’opera installata e le libere considerazioni che chiunque, entrando una alla volta, poteva formulare personalmente. Questo intero progetto mi ha fatto capire quanto importante sia oggi maturare con gli artisti riflessioni che ambiziosamente possano trovare una dimensione nel grande dibattito sull’esistenza e le arti visive, proprio perché non l’abbiamo mai inteso solo come una mostra, ma un ragionamento ongoing in cui non è ancora chiara la fine. Quando ancor prima nel 2005/2006 con Angelo Bellobono ad esempio parlavamo di geografie, del ghiaccio come memoria del tempo e archivio del mondo, delle montagne come cerniere e non barriere, di quanto obsoleto fosse il concetto di appartenenza territoriale, o di come, inoltre, fosse necessario stabilire modelli illuminati di relazione sociale e azione progettuale, eravamo solo all’inizio di un percorso concettuale di cui, appunto, solo oggi Atla(s)now è lo zenit progettuale dell’atlante marocchino. Rispetto dunque ad una mia deontologia acquisita di costruire urgenze e poi mostre, trovo difficile capire quale delle due sia effettivamente la prima: l’evento datato 2007 ma ancora oggi in discussione o il concetto del 2005/2006 che si concretizza oggi?».

Quali sono secondo te le manifestazioni d’arte contemporanea più importanti?

«Se per manifestazioni intendi “spettacolo pubblico”, Documenta supera la questione dell’arte stessa, esce dai limiti della sua specificità per regalarci uno scenario che sconfina nell’illimitatezza del pensiero, grazie anche alla geografia di curatori, artisti, filosofi, scienziati, ingegneri che formano la vertiginosa Via Lattea della sua squadra. Ma se per manifestazioni intendi qualcosa che si “rende noto”, allora ritengo importanti tutti quei progetti indipendenti che gli artisti radicano tra la gente comune, rendendoli protagonisti della loro evoluzione. Trovai di una delicatezza notevole le parole che Alessandro Bulgini spese per spiegarmi cosa significava fare B.A.R.L.U.I.G.I. con gli abitanti di Barriera di Milano nella periferia di Torino, la cui marginalità l’ho subito trovata affine ai concetti di marginalità e lateralità della sua intera ricerca sulla figura dell’eretico Hairetikos: «Come ogni giorno da un po’ di tempo a questa parte, sono seduto dentro questo “bar Luigi”‘ senza fare niente di particolarmente “artistico”. Sono a disposizione degli avventori, così anche solo per fare due chiacchiere; in cuor mio produco forma. La ricaduta diretta sulla gente si ottiene se metti a loro disposizione la tua “esperienza” esistenziale nella quale includo anche la capacità di prevedere se da lì a cinque minuti viene a piovere date le condizioni di vento e vorrei non dover essere pagato per questa capacità raffinata e affinata. Sono, siamo degli stregoni a servizio degli altri, produciamo meraviglia, cosa vuoi di più? Prova a togliere alla povera gente pure questo, lascia loro scatole grigie, fumo, burocrazia e menzogna». Questo è il cuore del “suo” barLuigi, un calendario di persone la cui traccia si coagula in un’opera viva – come da anni è solito titolare parte della sua produzione – e come il suo, solo progetti simili riescono a toccarti così a fondo. Se quindi manifestazioni come Documenta sono importanti per il crocevia di intellettuali con cui ragionare sull’esistenza dell’uomo nello scenario collettivo, le manifestazioni indipendenti lo sono per il crocevia invece di gente comune che, introdotte alle espressioni visive, a loro volta avvicinano noi a quelle esperienze esistenziali che ancor prima appartengono ad uno scenario giornaliero”.

Qual è il genere d’arte contemporanea che prediligi?

«Quando mi avvicino al lavoro di un/una artista, mi predispongo con estrema curiosità. Qualunque esso sia il medium, sono pronto ad abbracciarlo. Conta la ricerca e la profondità espressiva».

Cosa significa occuparsi di critica d’arte al giorno d’oggi?

«Analizzare ogni fase della ricerca nella totalità della sua complessità. E farlo con l’artista. La critica è un processo che deve inscindibilmente far parte della sua quotidianità. Gli artisti oggi non hanno un confronto costante e giacché ritengo la critica un positivo e costruttivo strumento interno, è importante che sia più aderente possibile all’evoluzione dell’opera. Pur avendo difficoltà a ritenerlo un lapidario strumento esterno – in quanto tale, troppo scollato dal processo di costruzione dell’opera e tendenzialmente meno consapevole – è giusto mantenere rigore nel giudizio quando si fa studio visit».

Nell’enorme vastità e offerta dell’arte contemporanea, come si fa a riconoscere la qualità del lavoro di un artista?

«Uscire dal ‘mi piace o non mi piace’ ed entrare nel ‘questo sposta la visione e questo no’. Quello che conta è l’urgenza che c’è nell’espressione del lavoro e, per quanto mi riguarda, quanto il personale percorso umano dell’artista riesca visivamente a essere specchio di uno invece più ampio come quello collettivo. Di Andrea Nacciarriti, per esempio, tra gli artisti che reputo tra i più interessanti del panorama italiano della sua generazione, ho sempre apprezzato il suo modo di costruire sensibilità. Pur avvalendosi di metodi spesso brutali, le sue messe in scena complesse hanno sempre molto a che fare con la “genesi” del fallimento, ma lo sono nella sua più carnale semplicità. Il lavoro che mi ha fatto capire che Andrea avrebbe “cercato”, più che “inserito”, è Sleepingtime, 44 00 00 00 00 [parquet]. Il lavoro consiste nell’aver trovato, e tirato a lucido, un vecchio pavimento di legno della galleria coperto da anni di pigmento. Sui bordi della sezione di quadrato mostrata, sono evidenti i residui lasciati dall’acido sulla vecchia superficie sintetica; ma per quanto l’azione aggressiva del composto chimico possa essere “immorale”, e il suo essere coscientemente destinato a rimanere coperto “deludente”, quel legno temporaneamente tirato a specchio lo trovo così dignitoso. Per me quel pezzo di legno ha una valenza umana, e non a caso ho riservato per esso un termine che lo è altrettanto: coscientemente. Dunque non è tanto una componente in particolare che convince, ma le sembianze umane che questi dispositivi inanimati assumono e le tracce di vita personali che trasudano, cui fanno capo entusiasmi e tormenti che appartengono a tutti».

Progetti futuri?

«A marzo torno a New York per tre o sei mesi. E continuerò a lavorare su Atla(s)now, facendo molta ricerca per conoscere il panorama marocchino/africano da coinvolgere».

Nata a Bologna nel 1982, vive e lavora tra Bologna, Milano e Roma. Laureata in Storia dell’Arte Contemporanea all’Università di Bologna, oggi è curatrice indipendente di mostre d’arte in Italia e all’estero. Iscritta all’ordine dei giornalisti, scrive articoli di arte per Il Resto del Carlino e per altre riviste del settore. Sportiva, appassionata di viaggi e… totally art addicted.

Visualizza commenti

  • Trovo molto interessante questo progetto di Exibart, finalmente si parla di chi naviga ogni giorno a vista per farsi largo nel difficilissimo mondo della critica d'arte. Un solo appunto, dai profili scelti pare emergere che l'unica cosa che conta nel lavoro del giovane critico, sono le esperienze all'estero, e il vivere tra l'Italia e qualche altra parte del mondo. Ci sono decine di giovani curatori che quotidianamente si fanno il mazzo nella provincia, tra tagli alla cultura, enti miopi, clientelismi, dove si è costretti ad organizzare mostre negli spazi più impensati, pur di fare, pur di non lasciar morire tutto nell'indifferenza; fagocitati spesso dalla fatica di non essere grandi regioni, abitate da persone normali, spesso ancorate alla propria terra per scelta. Ovvio che bisogna sapere vedere lontano, ovvio che l'esperienze all'estero sono linfa vitale, ma c'è bisogno anche di noi e grazie Dio esistiamo.

    (Francesca, una povera critica d'arte di provincia)

  • Cara Francesca, veniamo dalla provincia e conosciamo bene ciò di cui parli, io forse per ragioni anagrafiche lo conosco un pò di più.
    Ho visto centri sociali diventare discoteche e rivoluzionari divenire mediocri e pericolosi assessori. Lavoriamo tutti dentro sacche di resistenza, quando c'è urgenza.

  • Indipendentemente dal "vive e lavora tra Zola Predosa e New York", che a me ha sempre fatto ridere e che finalmente sta smettendo di avere un significato anche qui, penso che in una provincia come l'Italia (ormai non possiamo più fingere di essere un centro di cultura di livello mondiale) sia importante mantenere una coscienza pulita e lineare di quello che è la propria ricerca. Mi ha fatto piacere leggere le parole di Alessandro Facente, che non conoscevo e che d'ora in poi seguirò con attenzione, e il suo racconto del Bar Luigi dell'ottimo Bulgini. Il rapporto con l'arte (che per l'artista è vitale e quotidiano) deve essere tale anche per il curatore ed il critico, ed il curriculum, che altri non è che la sintesi della vita di un artista, deve tornare ad avere una sua valenza nella superficialità (provinciale, appunto) italiana.
    A Francesca posso solo augurare che abbia la possibilità di un'esperienza all'estero (ci sono residenze per curatori disponibili in giro, ma bisogna sapere l'inglese!) perchè effetivamente solo uscendo dall'Italia possiamo avere un'immagine chiara delle sue limitazioni di pensiero, e tentare di migliorare le cose al nostro ritorno.

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