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03
dicembre 2007
fino al 10.XII.2007 Ateros Cuentos 03 Villanova Monteleone (ss), Sa Domo Manna
sardegna
Il luogo come fonte d’ispirazione nell’interpretazione di quattro artisti. Chiamati per dare vita ad “altri racconti”, nell’ultimo capitolo della rassegna. Con qualche nota dolente...
È il genius loci, ovvero lo spirito del luogo secondo il mito dell’antica Roma, il cardine intorno al quale ruota la rassegna Ateros Cuentos (“altri racconti”), giunta al suo terzo e ultimo appuntamento. Lo spirito di un’abitazione -quella di Sa Dommo Manna- che parla di assenza, di un sovrapporsi di esperienze che non ha avuto luogo perché quella casa, costruita da oltre un secolo e destinata a una coppia tragicamente separata alla vigilia delle nozze, non fu mai abitata.
Un’entità del luogo mancata ma che non può prescindere dal concetto di contemplazione e ispirazione dal quale origina il progetto di Giuliano Sale (Cagliari, 1977) che da vita, appunto, a “un’altra storia”. Cinque tele per dispiegare il racconto di una bambina cieca dalla nascita, isolata nel suo dramma e con la sola compagnia immaginaria di un peluche col quale non riesce a interagire fino al momento della sua morte. Unico istante nel quale i suoi occhi finalmente si dischiudono e dove la fine appare come liberazione. Una storia fatta di dolore, solitudine ed esperienze mancate, parallela per drammaticità a quella dei due sfortunati amanti.
Per Gianfranco Setzu (Oristano, 1975), invece, l’interpretazione del genius loci prende un’altra piega, puntando sul concetto di domesticità come pretesto per indagare la collettività e raccontare per immagini o, meglio per icone il caos generale della metropoli. In una fusione tra globale e locale, con tutta l’atmosfera pop che ne contraddistingue l’opera, l’artista staglia, in una delle pareti, un assemblaggio di A4 stampati col plotter dove non tarda a intravedersi -tra Damien Hirst, Kate Moss e il lupo della metropolitana di NY- un gruppo di conigli. Emblema di morte nel periodo primaverile, quando tutto oramai inneggia alla vita. Dal colto citazionismo all’ironia tagliente che ritroviamo nella parete opposta, dove l’acronimo FART (da flatulenza) -sovrastante gli amplificatori- altro non è che un’esigenza di rimarcarne il concetto di caos come unica condizione dal quale può rinascere la vita.
A causa dell’affastellamento caotico dell’allestimento, le immagini fotografiche di Chiara Porcheddu (Sassari, 1982) -tra l’altro già viste in altre occasioni- perdono di quell’intensità narrativa che solo una selezione più accurata e un’installazione più scarna avrebbero potuto permettere. Fotogrammi evanescenti, sospesi tra sogno e realtà esibiscono una domesticità aliena, al limite dello straniante, dove la presenza diventa assenza e il visibile invisibile. Per un’interpretazione del privato come condizione effimera dell’esistenza.
Una nota dolente all’interno di quest’ultimo appuntamento della rassegna -sommariamente impostata su interventi efficaci, dove è stato il tema della morte a prevalere- è data dall’opera “acerba” di Mauro Morittu (Alghero, 1980), quasi imbarazzante per il basso livello tecnico e per banalità della rappresentazione: una sposa dipinta su un telo di raso bianco il cui lembo estremo, in foggia di strascico, è lasciato cadere dalla tromba delle scale.
Un’entità del luogo mancata ma che non può prescindere dal concetto di contemplazione e ispirazione dal quale origina il progetto di Giuliano Sale (Cagliari, 1977) che da vita, appunto, a “un’altra storia”. Cinque tele per dispiegare il racconto di una bambina cieca dalla nascita, isolata nel suo dramma e con la sola compagnia immaginaria di un peluche col quale non riesce a interagire fino al momento della sua morte. Unico istante nel quale i suoi occhi finalmente si dischiudono e dove la fine appare come liberazione. Una storia fatta di dolore, solitudine ed esperienze mancate, parallela per drammaticità a quella dei due sfortunati amanti.
Per Gianfranco Setzu (Oristano, 1975), invece, l’interpretazione del genius loci prende un’altra piega, puntando sul concetto di domesticità come pretesto per indagare la collettività e raccontare per immagini o, meglio per icone il caos generale della metropoli. In una fusione tra globale e locale, con tutta l’atmosfera pop che ne contraddistingue l’opera, l’artista staglia, in una delle pareti, un assemblaggio di A4 stampati col plotter dove non tarda a intravedersi -tra Damien Hirst, Kate Moss e il lupo della metropolitana di NY- un gruppo di conigli. Emblema di morte nel periodo primaverile, quando tutto oramai inneggia alla vita. Dal colto citazionismo all’ironia tagliente che ritroviamo nella parete opposta, dove l’acronimo FART (da flatulenza) -sovrastante gli amplificatori- altro non è che un’esigenza di rimarcarne il concetto di caos come unica condizione dal quale può rinascere la vita.
A causa dell’affastellamento caotico dell’allestimento, le immagini fotografiche di Chiara Porcheddu (Sassari, 1982) -tra l’altro già viste in altre occasioni- perdono di quell’intensità narrativa che solo una selezione più accurata e un’installazione più scarna avrebbero potuto permettere. Fotogrammi evanescenti, sospesi tra sogno e realtà esibiscono una domesticità aliena, al limite dello straniante, dove la presenza diventa assenza e il visibile invisibile. Per un’interpretazione del privato come condizione effimera dell’esistenza.
Una nota dolente all’interno di quest’ultimo appuntamento della rassegna -sommariamente impostata su interventi efficaci, dove è stato il tema della morte a prevalere- è data dall’opera “acerba” di Mauro Morittu (Alghero, 1980), quasi imbarazzante per il basso livello tecnico e per banalità della rappresentazione: una sposa dipinta su un telo di raso bianco il cui lembo estremo, in foggia di strascico, è lasciato cadere dalla tromba delle scale.
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a cura di Lia Turtas e Sonia Borsato
Sa Domo Manna
Via Roma – 07019 Villanova Monteleone (SS)
Orario: tutti i giorni ore 16-20
Ingresso libero
Info: spac@supalatu.it
[exibart]
morittu cambia mestiere ,ti consiglio l’agricoltura!