È il
genius loci, ovvero lo spirito del luogo secondo il mito dell’antica Roma, il cardine intorno al quale ruota la rassegna
Ateros Cuentos (“altri racconti”), giunta al suo terzo e ultimo appuntamento. Lo spirito di un’abitazione -quella di Sa Dommo Manna- che parla di assenza, di un sovrapporsi di esperienze che non ha avuto luogo perché quella casa, costruita da oltre un secolo e destinata a una coppia tragicamente separata alla vigilia delle nozze, non fu mai abitata.
Un’entità del luogo mancata ma che non può prescindere dal concetto di contemplazione e ispirazione dal quale origina il progetto di
Giuliano Sale (Cagliari, 1977) che da vita, appunto, a “un’altra storia”. Cinque tele per dispiegare il racconto di una bambina cieca dalla nascita, isolata nel suo dramma e con la sola compagnia immaginaria di un peluche col quale non riesce a interagire fino al momento della sua morte. Unico istante nel quale i suoi occhi finalmente si dischiudono e dove la fine appare come liberazione. Una storia fatta di dolore, solitudine ed esperienze mancate, parallela per drammaticità a quella dei due sfortunati amanti.
Per
Gianfranco Setzu (Oristano, 1975), invece, l’interpretazione del
genius loci prende un’altra piega,
puntando sul concetto di domesticità come pretesto per indagare la collettività e raccontare per immagini o, meglio per icone il caos generale della metropoli. In una fusione tra globale e locale, con tutta l’atmosfera pop che ne contraddistingue l’opera, l’artista staglia, in una delle pareti, un assemblaggio di A4 stampati col plotter dove non tarda a intravedersi -tra
Damien Hirst, Kate Moss e il lupo della metropolitana di NY- un gruppo di conigli. Emblema di morte nel periodo primaverile, quando tutto oramai inneggia alla vita. Dal colto citazionismo all’ironia tagliente che ritroviamo nella parete opposta, dove l’acronimo
FART (da flatulenza) -sovrastante gli amplificatori- altro non è che un’esigenza di rimarcarne il concetto di caos come unica condizione dal quale può rinascere la vita.
A causa dell’affastellamento caotico dell’allestimento, le immagini fotografiche di
Chiara Porcheddu (Sassari, 1982) -tra l’altro già viste in altre occasioni- perdono di quell’intensità narrativa che solo una selezione più accurata e un’installazione più scarna avrebbero potuto permettere. Fotogrammi evanescenti, sospesi tra sogno e realtà esibiscono una domesticità aliena, al limite dello straniante, dove la presenza diventa assenza e il visibile invisibile. Per un’interpretazione del privato come condizione effimera dell’esistenza.
Una nota dolente all’interno di quest’ultimo appuntamento della rassegna -sommariamente impostata su interventi efficaci, dove è stato il tema della morte a prevalere- è data dall’opera “acerba” di
Mauro Morittu (Alghero, 1980), quasi imbarazzante per il basso livello tecnico e per banalità della rappresentazione: una sposa dipinta su un telo di raso bianco il cui lembo estremo, in foggia di strascico, è lasciato cadere dalla tromba delle scale.
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morittu cambia mestiere ,ti consiglio l'agricoltura!