Allievo del Fattori, Guido Colucci debuttò nel panorama artistico italiano alla Biennale del 1912 e un anno dopo in quello europeo a Parigi. Il suo studio fiorentino colmo di vasi, oggetti bizzarri e incisioni giapponesi, denota un interesse per mondi lontani. Passione, questa, fomentata dalla sua compagna Edith Southwell, (fotografa ed etnologa) e dalla cultura corrente che vede nello studio dell’etnografia e dell’etnologia un’importante risorsa culturale.
Soggiornò a Tripoli e in Corsica, prima di giungere in Sardegna, la Polinesia del mediterraneo. Era questa l’unica terra, evidentemente capace di soddisfare, con il suo fascino arcaico, il desiderio di terre lontane. Sarebbe erroneo tuttavia individuare Colucci come una sorta di Gauguin nostrano, poiché il suo interesse per l’arcaico e il primitivo, poggia su basi assai diverse da quelle dell’artista francese. Colucci, infatti, fu pittore di macchia, dedito al suo maestro Giovanni Fattori e affascinato dall’opera di Frank Brangwyn . La sua produzione più nota, è quella legata ai paesaggi della campagna toscana, ai pescatori liguri, agli scorci di Firenze, e di Siena, ma anche di Parigi e Londra che riproduceva in eleganti incisioni dal raffinato segno.
Giunto in Sardegna insieme alla moglie nel 1928, rivolge, al costume tradizionale sardo, la sua attenzione. Colucci è affascinato dalle incredibili varianti presenti nel territorio, frutto di una lenta elaborazione che assegnano, al vestiario tradizionale sardo, il ruolo di unicum rispetto al panorama europeo. Questa specificità, è il risultato di una lenta stratificazione socioculturale, priva di contaminazioni modaiole borghesi, riscontrabili nelle sole città di Cagliari e Sassari.
Il Colucci si dimostra attento osservatore e abile disegnatore registrando nel suo taccuino, le diverse tipologie del complesso vestimento femminile e maschile. Ne traspare una vera e propria indagine analitico-descrittiva, accompagnata spesso, da brevi notazioni riportate sulle singole carte di fianco al bozzetto: particolari ingranditi, gioielli, lessico specifico, partiti decorativi.
L’opera definitiva è composta da 50 incisioni, che presentano il ricco repertorio firmato Sardegna. Corpetti rigidi come sculture di stoffa, vaporose camicie arricchite da bottoni gioiello, delicati ricami floreali e lunghe gonne plissettate, sono gli elementi più comuni del vestimento femminile isolano. Non mancano tuttavia bizzarre varianti che, stravolgono e rendono impossibile individuare un solo modello valido per tutta la Sardegna. Si pensi per esempio a quanta differenza c’é tra il costume di Iglesias (ca), dal vernacolare aspetto e quello di Dorgali (nu) che, arricchito da un’epifania di gioielli, fa somigliare chi lo indossa, ad una moderna basilissa. Minori sono le differenze nel vestimento maschile, più rigoroso nella sua contrapposizione bianco-nero, dove rari sono gli elementi decorativi per lo più di tipo geometrico come per esempio in quello di Orgosolo (nu). Il costume inoltre, rappresenta uno status, che si misura non solo sulla qualità delle stoffe o sulla quantità dei preziosi, ma anche da dettagli, apparentemente inutili, come il numero di balze presenti in una gonna, secondo regole gerarchiche ancora valide fino alla metà del secolo precedente.
Quest’indagine, compiuta in 35 paesi della Sardegna da nord a sud, ha l’intento di rappresentare il valore del costume isolano secondo un criterio documentaristico. Tuttavia l’analisi descrittiva non si antepone mai all’espressione artistica, dimostrando che, il lavoro del Colucci ha dignità, sia come opera d’arte, sia come studio etnografico.
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